domenica 12 dicembre 2010

Mio padre e la bicicletta



Chiunque vada in bicicletta ha dei vividi ricordi della sua prima bicicletta, non c'è dubbio.

E, si badi bene, non deve necessariamente della prima bicicletta dove eventualmente si sono apprresi i rudimenti dell'andare in bici, prima con le rotelline e poi finalmente senza (e la bici-scuola, eventualmente, presa in affitto o in prestito), ma della prima bicicletta che è stata "nostra" nel senso più totale del termine, quella che per la prima volta ci ha fatto sentire un po' più adulti e più autonomi, quella con cui abbiamo finalmente cominciato ad "osare" e a tentare delle imprese un po' più ardimentose (commisurate con l'età, ovviamente: e quindi anche un giro dell'isolato un po' più lungo oppure l'attraversamento di una strada asfaltata con traffico veicolare).

La prima bicicletta, quella già per più grandi, una 24 o una 26 (prima, ai bambinetti piccini non si regalava una bicicletta come si usa fare adesso, perchè sarebbe stato uno spreco inutile) era una cosa importante, un po' il riconoscimento dell'aver raggiunta un'adultità ai suoi albori.

La mia prima bici fu una 26 (marca ignota), che ebbi come strenna natalizia per i dipendenti dell'Assemblea Regionale Siciliana, quando avevo 12 anni.

Mio padre con questa mi insegnò ad andare sulle strade asfaltate con una certa sicurezza: con l'occasione, ne comprò una anche lui per sé (una Legnano, ricordo) e comincaimmo a fare lunghe passeggiate assieme, dopo che mi fui impratichitito a sufficienza in una breve strada dietro casa, poco frequentata dalle auto.

Io, senza cambio, arrancavo dietro di lui.

Mio padre, però, era un severo maiestro: non si ammorbidiva affatto, se vedeva che faticavo a stargli appresso.

Preso dall'ebbrezza della velocità arrancava e io dietro di lui.

La bicicletta lo faceva ringiovanire e lo rimandava indietro nel tempo, quando - prima della guerra - aveva avuto una sua bicicletta che adoperava come mezzo di locomozione per spostarsi anche su lunghe distanze.

Mi raccontava di una volta che era sceso a rotta di colla da Altofonte, tenendo un sacchetto pieno di olive tra i denti, sottolineando che non avrebbe mai immaginato quale sofferenza gli sarebbe costata continuare a reggere quel peso con i denti, tra scosse e oscillazioni continue.

Mai che si girasse per vedere se ero in difficoltà.

Fui così che imparai ad arrangiarmi da solo e ad essere intrepido, rifuggendo dall'accusare stanchezza.

Con lui non c'erano cazzi (scusatemi se adopero oggi una frase che non era nel mio linguaggio di allora, ma che esprime pienamente il concetto).

Ci si fermava soltanto quando si era arrivati alla meta.

E non ci si doveva lamentare della stanchezza.

Mio padre non gradiva questo tipo di manifestazioni: puerili, a suo avviso.

E lui aveva fatto la guerra ed era stato in prigionia.

Mi insegno anche una serie di cose fondamentali, tra le quali: mai frenare con il freno di davanti.

Era un maestro che sbagliava, però, e che non si piccava quasi mai di essere "perfetto". Una volta, proprio lui che mi aveva sempre raccomandato di non usare da solo (e bruscamente)il freno di davanti da solo, frenò bruscamente proprio con quello, facendo ribaltare la bici e finendo lungo disteso per terra (fu per evitare un bus). Rialzandosi, con i polsi doloranti per la botta, mi disse: "Cosa ti avevo detto? Mai frenare con il freno anteriore! Hai visto cosa succede"?.

Insomma, era capace di trasformare il suo stesso errore in insegnamento. Il che non è cosa da poco.

Malgrado le lunghe scorribande con mio padre, per molto tempo, per me ci fu il divieto esplicito di adoperare la bici da solo: mi era consentito soltanto di andare sul marciapiedi. Si intendeva: sul marciapiedi davanti casa.

Cosa che io, addestrato alle lunghe passeggiate ad ampio raggio con mio padre, vivevo come un'ingiustizia. Riottoso nei confronti della limitazione impostami, trovai un brillante escamotage: quello di fare il giro dell'isolato.

Soltanto che l'isolato della via dove abitavamo allora era davvero enorme.

Poi, pochi mesi dopo, trovai un altro sistema.

Dicevo a mia madre che andavo all'edicola a comprare gli ultimi giornalini usciti di quelli che collezionavo e, invece, mi avventuravo in giri lunghissimi ed avventurosi.

Una volta d'estate, arrivai perfino a San Martino delle Scale, rifacendo strade già percorse con mio padre che intanto mi aveva abbandonato, preferendo per le sue pedalate la compagnia d'un mio cugino più grande con il quale andava spesso in lunghi giri fuori città durante la settimana, di mattina, proprio quando io ero a scuola (tra le sue mete l'aeroporto di Punta Raisi, per fare un esempio).

Poi quella bici venne ceduta a qualche cuginetto più piccolo: mio padre acquistò per sé una Bianchi cromata e con il telaio in blu elettrico e mi cedette la sua Legnano.

Con la vecchia Legnano, per me nuova amica, intrapresi altre belle avventure, finalmente senza più il vincolo della vicinanza a casa.

Ma spesso la vecchia Legnano la tradivo per la Bianchi nuova fiammante di mio padre che presi a usare per andare a scuola, finchè un bel giorno me la rubarono.

E mio padre? Tuoni, fulmini e saette.

Ma poi se ne comprò una nuova.

Eppure quella Bianchi rimase insostituibile...

Era davvero bellissima.

martedì 2 novembre 2010

Qui un Francesco Crispi può sempre entrare liberamente!

Papà, sino al giorno della sua morte, viaggiava tantissimo.
Una delle mete più frequenti dei suoi spostamenti era Roma.
Viaggiava sempre in aereo, in occasione dei viaggi brevi.
Talvolta, per i viaggi lunghi, come quando andava a seguire il Festival del cinema di Taormina oppure quello annuale di Mozart, a Salisburgo, si spostava con la macchina.
Gli piaceva viaggiare in auto, anche per lunghe ore di seguito e da solo: probabilmente la cosa gli dava un senso di libertà.
Io, per esempio, non ricordo di averlo mai accompagnato in auto in uno dei suoi lunghi viaggi.
Il mio viaggiare in auto con lui è legato soltanto ai nostri ricordi di gite familiari allargate, la domenica e dintorni, risalenti ai tempi della mia infanzia, e poi ai viaggi - frequenti, peraltro, sino ad un certo punto della mia adolescenza - per andare a trascorrere i week-end a Piano Zucchi (Rifugio CAS) sulle Madonie.
Per lui, andare a Roma era come prendere l'autobus: faceva il pendolare, andando la mattina presto e spesso tornando la sera, con l'ultimo volo.
Questa fu appunto la circostanza della sua morte.
Andava al seguito del Ferdinando Stagno D'Alcontres (di cui era uno stretto collaboratore), prima come Presidente ARS e successivamente come Presidente della Cassa di Risparmio V.E. delle Provincie Siciliane.
Molti degli ultimi viaggi a Roma furono correlati con le attività istituzionali previste per il Premio Pirandello per il teatro, promosso dalla Cassa di Risparmio con il patrocinio della Presidenza della Repubblica (alla presentazione ufficiale del Premio D'alcontres, il suo vice Visalli, papà e alcuni altri furono tutti ricevuti dal Presidente della Repubblica, a quei tempi Saragat).
Ma, a Roma, andava anche innumerevoli volte per seguire i lavori parlamentari, visto che - anche dopo essere passato a lavorare alla Cassa di Risparmio come Capo Ufficio Stampa , continuava ad avere la direzione responsabile di Cronache Parlamentari Siciliane, la rivista ufficiale (mensile) dell'Assemblea Regionale Siciliana, la cui direzione mantenne per quasi dodici anni consecutivamente sino alla sua scomparsa.
Una volta ci raccontò questo episodio (che, di recente, ci è stato rievocato in maniera identica da alcune persone che abbiamo conosciuto in occasione di una gita a Palazzo Adriano).
Era a Roma e doveva entrare alla camera dei Deputati, ma - in quell'occasione - non aveva con sé il tesserino di giornalista, oppure un usciere particolarmente solerte lo bloccò sulla porta.
L'usciere dopo avergli chiesto come si chiamava telefonò a qualcuno di alto rango per risolvere il problema o per chiedere consiglio.
A quanto pare, la richiesta venne girata ad Amintore Fanfani in persona.
L'usciere disse: "C'è qui alla porta uno che vuole entrare.
"Come si chiama"?
"Si chiama Francesco Crispi".
Fanfani rispose: "Qui, un Francesco Crispi può sempre entrare liberamente! Le porte sono sempre aperte per lui"!
E mio padre entrò al Palazzo con tutti gli onori del rango.
Evidentemente l'usciere era del tutto digiuno di storia.

lunedì 11 ottobre 2010

La lettera segreta


Questa notte ho sognato mio padre.
Era vestito elegante, con un abito scuro - un completo - camicia e cravatta.
Era a Palermo di passaggio in un intervallo tra i suoi tanti viaggi.
Mi dava delle lettere e delle cartoline da spedire.
Tra le tante cose, 'era una busta sigillata che mi incuriosiva e tentavo di leggere l'indirizzo del destinatario.
Mio padre si spazientiva e s'adoperava perchè io non potessi leggerlo: cercava di nascondere quell'indirizzo capovolgendo la busta, coprendola con la mano o impilandoci sopra altri plichi.
Andava a finire che era lui stesso ad imbucare tutto quanto, cartoline e plichi, in una cassetta postale.
Io rimanevo con la curiosità di sapere.

(notte del 10 ottobre 2010)

Mio padre, specie quando ero piccolo, quando viaggiavo mi spediva sempre delle cartoline, anche diverse al giorno: erano calorine molto colorate, a volte con la rappresentazione di costumi tipici del posto in cui si trovava. Scriveva poche frasi laconiche e riempiva tutto lo spazio rimanenti con bei francobolli colorati del paese in cui si trovava.
In uno stesso giorno a noi a casa venivano recapitate anche due o tre cartoline.
Era il suo modo di pensare a noi, quando era in viaggio.
Alcune di quelle cartoline ce le ho ancora.

martedì 5 ottobre 2010

Il matrimonio dei miei genitori

Papà e mamma si sposarono il 4 ottobre del 1942 (se non ricordo male).
Papà era in divisa da ufficiale (con gli stivali di cuoio rigido e i pantaloni alla cavallerizza sbuffanti sul ginocchio e tanto di cinturone), la mamma in abito bianco rimediato alla meno peggio, per quanto poteva consentire la rigida e stentata economia di guerra.
Il matrimonio fu celebrato nella Chiesa della Martorana di Palermo con il rito greco-ortodosso, quello che poi da piccolo - in occasioni successive - imparai a conoscere, con tutti quei rituali altamente simbolici.
Come, ad esempio questi momenti: gli sposi posti dal papas sotto un unico velo (a simboleggiare la permanenza sotto un unico tetto), il momento solenne in cui bevono da uno stesso bicchiere che poi il papas va ad infrangere per terra (nessun altro deve infrangere l'intimità dei due sposi) dietro l'altare, il girare ritualmente attorno all'altare per tre volte consecutive preceduti dal papas ieratico e solenne, i canti, i fumi densi dell'incenso, le iconostasi.
Tutto questo l'ho visto in anni successivi in matrimoni celebrati con il rito greco cui ho presenziato (a partire da quello di mio zio Pippo) e la mia fantasia fervida lo ha applicato alla memoria dello sposalizio dei miei genitori.
Mi dice mia cugina Luciana che mamma custodiva un piccolo album di foto scattate quel giorno e che lo conservava da qualche parte: una volta lei lo vide, perchè la mamma le disse di prenderlo.
Mamma, in diverse circostanze, si era dichiarata determinata a distruggere preventivamente lei stessa una serie di documenti del passato che la riguardavano. Quindi, adesso, non so che fine abbia fatto quell'album.
Prima o poi dovrò mettermi a cercarlo, in qualcuno dei ripostigli degli armadi dove mamma conservava vecchie carte e cose del suo passato.
Il matrimonio fu "poverello", nel senso che tutto fu ridotto - per necessità - ai minimi termini.
Subito dopo la cerimonia, ci fu l'abbozzo di un piccolo ricevimento in un locale adiacente alla stessa chiesa.
Ebbero proprio quattro regali dagli amici e parenti più stretti, tra i quali: un'edizione completa delle opere di Gabriele D'Annunzio in tanti volumi rilegati in azzurro, un centro tavola in legno intagliato, a conca, fatto per riporre le noci, al centro del quale - su di una piccola prominenza - seduto sulle zampe posteriori si ergeva uno scoiattolo con una noce stretta tra le zampine anteriori.

L'invito alle nozze

Il loro matrimonio avvenne nell'intervallo tra la conclusione del periodo trascorso da mio padre presso la Scuola Allievi Ufficiali di Fanteria di Spoleto e la sua assegnazione ad una sede definitiva.
Infatti, poco dopo il matrimonio, mia madre ottenne il trasferimento (già insegnava in una Scuola Media) a Battipaglia, dove papà era stato accantonato con la sua Compagnia in attesa di destinazione.
Di lì a poco, infatti, partì per il fronte d'Africa.
Più tardi, papà mi disse che non era partito per caso: la guerra era ormai persa e, forse, avrebbe potuto evitarlo. Ma lui - mi confidò - chiese di andare egualmente.
Mi disse anche che, di questo, non aveva detto nulla a mamma: era un suo segreto, mi parve di capire.
Partito papà, mamma tornò a Palermo: non aveva più motivo di starsene a Battipaglia.
Mamma fu, a tutti gli effetti, una "sposa di guerra".
Papà, attestatosi con il contingente in Tunisia, venne fatto prigioniero con la sua truppa dalle forze alleate poco dopo un mese dal suo arrivo in terra d'Africa e, da lì, internato in un campo durissimo, gestito dai Francesi, nel profondo Sud dell'Algeria, in pieno deserto.
Fece ritorno soltanto nel 1946, o giù di lì.
Del loro matrimonio ricordo vividamente una sola immagine: si tratta d'una foto in bianco nero, sgranata, che vidi da piccolo e che ho fortunosamente ritrovato, ma in forma di piccolo ritaglio per accoglierlo in un album fotografico di ricordi della prozia Irene [alcuni anni dopo aver scritto questa nota].
Nella foto si vedono papà e mamma che escono dalla chiesa sorridenti, mamma con il suo sorriso un po' timido, papà invece ridente negli occhi, ma con il volto sempre serioso. Papà solenne nella sua divisa da ufficiale, mamma lieve nel suo abito bianco, attorno volti sfocati di parenti giovani e anziani.
Ma tutto è davvero sfumato nel mio ricordo.
Io non c'ero, ovviamente, ma nello stesso tempo attraverso i racconti e le immagini viste per pochi istanti, ora scomparse o introvabili, io c'ero.
E mi rendo conto che la memoria delle cose passate della famiglia andrebbe preservata in ogni modo.
La condanna inevitabile è che, senza uno sforzo attivo, la memoria a poco a poco inevitabilmente sbiadisce e si fa sfumata.
Quando c'è tempo per farlo, si rimanda sempre, pensando che - in seguito - ci saranno sempre tempo e occasioni idonee e immaginando che la nostra memoria non ci tradirà mai.
Quando finalmente giunge il momento di fissare le cose una volta per tutte, trasformando i ricordi in storia, ecco che ci rendiamo conto che ciò che ci pareva chiaro e nitido ha perso definizione e che, nel frattempo, tanti dettagli si sono inabissati per sempre.
Penso adesso, a conti fatti, che - con i nostri figli - bisognerebbe regolarsi come ha fatto Tiziano Terzani con il proprio, quando comprese che la sua fine - di lì a poco - era segnata.
Far loro dono delle nostre narrazioni, soddisfare ogni loro curiosità relativa al nostro passato, ma chieder loro in contraccambio il dono di un po' del loro tempo ogni giorno, disponibilità all'ascolto e la "registrazione" dei racconti.
Per realizzare questo occorre che ci sia una volontà condivisa (direi di più, il desiderio di "donarsi" reciprocamente) e l'accettazione bilaterale dell'impermanenza.
Ora che mamma non c'è più non ho più nessuna fonte per abbeverarmi alla fonte dei ricordi e delle storie.
Rimane soltato la mia memoria fallace ed incerta.

domenica 26 settembre 2010

Mio padre, i libri e letture: le passioni che mi ha trasmesso

Mio padre e mia madre erano dei grandi lettori.
A casa c'erano tantissimi libri, molti della loro gioventù, anche se nelle loro famiglie negli anni precedenti la guerra non c'erano molti soldi per comprarne e i pochi libri che circolavano in casa non erano quasi mai di proprietà esclusiva di qualcuno. Come gli abiti, passavano di mano in mano, dal fratello o dalla sorella più grandi ai più piccoli man mano che il tempo passava.
Poi, sin dall'inizio della loro vita matrimoniale papà e mamma cominciarono ad acquistare dei libri e, naturalmente, entravano in casa - in più - tutti i i libri scolastici che mia mamma riceveva in visione e quelli di "lavoro" di papà: saggi storici, politici, biografie, testi filosofici, testi di economia politica.
Quando ero più grande - già al Liceo - aspettavo sempre che papà tornasse da casa, perchè sovente portava con sé un pacchetto contenente almeno dieci volumi che io subito esaminavo con curiosità, immaginando che ci potesse essere anche qualche cosa per me: ma il più delle volte erano cose che rientravano tra i suoi interesi di lavoro e che, ciò nondimeno, qualche volta io leggevo egualmente - anche se solo in parte.
Invece, quando ero più piccolo mio padre mi portava spesso con sé alla Libreria Flaccovio che, negli anni del dopoguerra a Palermo fu veramente un formidabile punto di riferimento della vita culturale non solo palermitana, ma globalmente siciliana.
Non era raro lì incontrare il poeta Ignazio Buttitta o importanti pittori, visto che - frequentemente - negli spazi della Libreria venivano allestite delle mostre.
Mentre mio padre chiacchierava con Fausto Flaccovio, io curiosavo in libertà tra gli scaffali del reparto dei libri per i ragazzi: ero deliziato di questa libertà che mi era concesso sotto l'occhio premuroso della signorina Iole (una delle istituzioni della libreria Flaccovio), anche perchè talvolta Fausto Flaccovio mi invitava a scegliere un libro da portare via ed, immancabilmente, la mia scelta si appuntava su uno dei più costosi. A nulla valevano i tentativi di dissuasione di papà e le sue instancabili proposte alternative. Fausto Flaccovio non faceva una piega e alla fine io, orgoglioso, mi portavo via quel libro ben incartato, pregustandone la lettura di lì a poco. A distanza di tempo, mi son chiesto più volte se poi mio padre non pagasse sottobanco (in camera caritatis) quei volumi, imbarazzato dell'invadenza e della poca discrezione delle mie scelte.
A casa papà leggeva soprattutto di notte: una volta, quando stavo per andare a letto, andai a salutarlo. Era seduto in salotto, come usava fare spesso. Aveva accanto a sé il tubler con due dita di bourbon e un grosso libro sulle ginocchia. "Che fai? Non vai a letto"? - gli chiesi. No! - fece lui - rimango a leggere ancora un po'". La mattina, quando mi alzai, ancora assonnato, vidi la luce del salottto ancora accesa: entrai nella stanza e lui era seduto ancora là dove l'avevo lasciato, con il libro anche questa volta sulle ginocchia, ma chiuso adesso. "Che fai? Non sei andato a dormire? - chiesi. "No. Ho letto per tutta la notte. L'ho appena finito" - replicò indicando il volume posato in grembo. Il grosso tomo era una biografia di Bismarck.
Ma così come leggeva libri di questo tipo, con altrettanta voracità leggeva polizieschi e romanzi "seri" (conosceva bene molti classici della letteratura e, appena uscito, lesse per intero "L'uomo senza qualità" di Musil.
Mamma nelle sue letture era più discreta (ma leggeva tantissimo compatibilmente con le sue incombenze scolastiche e familiari) e con lei frequentavamo il deposito della Fabbri editore che, oltre a stampare molti testi scolastici, pubblicava una grande varietà di ibri per ragazzi: alcuni me li comprava al prezzo scontato che le faceva il titolare del deposito, altri invece diventavano regali di Natale o per la Befana. Mamma mi stimolava a leggere, ma quasi mai mi leggeva delle cose, che io mi ricordi.
Papà, invece, quando ero più piccino usava fare delle letture a me e a mio fratello, quando eravamo già a letto, prima che si spegnesse la luce. E questi erano dei momenti sempre molto attesi.
Ci intratteneva abilmente: in parte leggeva, recitando; in parte raccontava, per alleggerire quei passaggi che a noi, ancora piccoli, sarebbero risultati noiosi.
Le letture di cui io mi ricordo furono, per citarne alcune: la storia di Alì Babà e i quaranta ladroni, quella di Aladino e la lampada magica, ma anche ci meravigliava con i viaggi avventurosi di Sinbad il marinaio, tra i quali mi colpirono maggiormente quello dell'incontro con il mitico uccello Rok oppure quello dello sbarco di Sinbad su di un'isola (che poi altro che non era che un gigantesco pesce con il dorso parzialmente emerso).
In contemporanea, mentre crescevo, sia a me sia a mio fratello, di concerto da mamma e papà venivano fatte proposte di lettura attraverso i regali delle grandi occasioni: fu così che arrivarono i romanzi di Salgari e di Jules Verne.
Papà era instancabile nelle sue proposte e, man mano che crescevo, se ne veniva fuori con delle aperture nuove ed inedite: fu così che, visto che mi ero appassionato ai romanzi di avventure salgariane, mi presentò un grosso volume contenente romanzi e racconti Conrad (che rappresenta l'evoluzione psicologica del romanzo marinaresco e di avventure) o anche alcune opere di Melville, con delle diramazioni verso il genere poliziesco (Conan Doyle e Sherlock Holmes), l'horror (Poe, Lovecraft) e anche ovviamente la letteratura diaristica di viaggio, di cui lui era un'instancabile cultore. Fu sempre lui a portarmi i primi volumetti dell'Urania, la mitica collana di fantascienza della Mondadori o anche le ben più serie propooste della science-fiction "colta" contenute nelle altrettanto mitiche antologie curate da Fruttero e Lucentino (prima Le meraviglie dell'impossibile e, successivamente "Le meraviglie del possibile" che rappresentarono lo sdoganamento udfficiale della fantascienza nell'editoria "colta")
Una volta - ad esempio - andammo a cinema a vedere la trasposizione in film della storia di Billy Budd il marinaio: un bellissimo film in bianco nero dei primi anni '60, commovente e triste. Al ritorno a casa tirò fuori il romanzo breve di Melville (da cui il film era stato tratto) e cominciò a leggermene alcuni brani che mi rimasero scolpiti con la nobile frase finale dell'innocente Billy Budd che, pur condannato all'impiccagione in applicazione del rigido regolamento della Royal Navy in tempo di guerra, prima della fine esclama davanti all'equipaggio riunito per assistere alla pena capitale: "Dio benedica il comandante De Vere!"
Penso sempre con nostalgia alle letture che mi faceva mio padre: credo che in molteplici modi sia riuscito a trasmettermi la passione per la lettura e per i libri (una passione che, a tratti, sconfina nella bibliofilia)
Forse proprio perchè animato dal riferimento nostalgico al passato, le stesse cose io ho cercato di fare io con mio figlio: anche mio figlio, con me, è cresciuto circondato dai libri, ma non so ancora se in qualche modo sono riuscito a trasmettergli qualcosa dei mondi meravigliosi che i libri possono schiuderti dinanzi e sul valore quasi sacrale che essi possono avere anche come testimoni che vengono passati da una generazione all'altra (e, in effetti, in un passato ancora non lontano - e così mi sono abituato a sentire io stesso - i libri erano un vero e proprio patrimonio di famiglia, senza un vero valore monetario ma di inestimabile prezzo dal punto vista valoriale).
Certo è che oggi tante cose sono cambiate e che tra i ragazzi della stessa età di mio figlio domina molto di più una cultura visuale che decisamente by-passa la parola scritta: e quindi - forse per questo motivo - la passione per il libro e per la lettura sono un po' in declino.

venerdì 10 settembre 2010

La passione di mio padre per le camminate in montagna


Mio padre amava molto camminare in montagna.
Non credo l'avesse mai fatto in gioventù come applicazione sportiva e di puro piacere, ma piuttosto aveva appreso la dura fatica del camminare con le marce a piedi che allora erano parte ineliminabile di ogni addestramento militare.
Eppure negli ultimi venti anni della sua vità riscoprì il piacere del camminare a piedi: amava fare lunghe camminate in montagna, a volte nei pressi di casa (Monte Pellegrino, Monte Cuccio, Pizzo Manolfo), a volte sulle Madonie, facendo base - il più delle volte - al Rifugio del Club Alpino Siciliano (CAS) di Piano Zucchi, initimamente connesso a memorie famigliari.
La montagna era nel vero senso della parola (anche se in senso benevolo) una sua ossessione: per esempio, lo incantava l'asprezza di Rocca Busambra, tanto che quando ci spostavamo in auto nel cuore della Sicilia gli pareva di vedere la sua massa imponente dovunque e mentre era alla guida, ci gridava: Eccola! Ecoola, Rocca Busambra!", un po' come facevano i balenieri di un tempo quando abbarbicati sula coffa dell'albero maestro gridavano "Thar she blows!"
Spesso, io e i miei cugini andavamo con lui: si trattava di camminate impegnative, perchè mio padre non amava sostare troppo a lungo. Quindi, in genere, ci muovevamo piuttosto rapidamente e il più delle volte, per ora di pranzo, eravamo già di ritorno, prontio a fare un'ulteriore breve scarpinata nel pomeriggio prima di andar via.
Con una certa frequenza, andavamo a passare in montagna al Rifugio di Piano Zucchi l'intero fine settimana. E ho un ricordo molto bello di questi week-end, in cui eravamo spesso (ma non esclusivamente) tutti insieme con mia mamma e mio fratello.
Altrettanto spesso, papà amava andare da solo.
Credo che questo suo modo di accostarsi alle bellezze dei monti siciliani fosse un modo per "ricaricarsi" e per far fronte agli incalzanti impegni lavorativi che lo attendevano nella nuova settimana che si sarebbe aperta di lì a poche ore, ma anche per ritrovare la serenità e per "mettersi in fuga", in qualche maniera dagli assilli della vita.
Credo che fosse per questo che papà adorasse, in definitiva, essere da solo, quando camminava.
Era più vicino al cielo quando raggiungeva una delle vette delle Madonie: credo che anche questa sensazione gli piacesse, a lui che, pur essendo in grado di affrontare con abilità le più diverse questioni pratiche, era un idealista con la convinzione di poter cambiare il mondo con la forza della cultura o di poterlo rendere migliore.
Sino all'ultimo fece le sue camminate.
Poco tempo prima della sua morte (nel 1970) venne inaugurato un nuovo rifugio del CAS a Piano Sempria, a 1300 m slm, proprio sopra Castelbuono e sulle pendici di Pizzo Carbonara.
Le sue ultime escursioni avvennero proprio qui: ricordo che qualche volta ci andammo assieme (c'erano anche i miei i miei cugini, con i quali mio padre era sempre molto affettuoso) a godere della bellezza di sentieri che si inerpicavano sul fianco della montagna attraverso fitte faggete, su su sino alla grande croce di ferro eretta proprio sulla cresta di Pizzo Carbonara in un punto aggettante su di un panorama mozzafiato.
Al trigesimo della sua morte, il Rifugio di Piano Sempria vene intitolato proprio a lui per ricordare questa sua grande passione per le sue Madonie.
Un suo amico ha scritto, nel primo numero di Cronache Parlamentari Siciliane (la rivista mensile dell'Assemblea Regionale siciliana, da lui diretta per 13 anni consecutivamente) uscito dopo la sua morte (Aldo Scimé, Ricordo di Francesco Crispi):

Poi, improvvisamente spariva: era a Bayreuth o a Bruxelles o a Strasburgo o, più semplicemente, a remare (fu campione di canottaggio) o sulle Madonie a girovagare sui monti, solo, con un bastone: forse da queste pause attingeva la forza per smaltire i disinganni, le delusioni, il dolore dell'incomprensione. Ma tutte queste cose non lo fermavano. Riappariva sereno e sorridente, con il passo cadenzato e forte di chi è abituato a camminare per i sentieri impervi di montagna e ha una lunga strada da percorrere (Cronache Parlamentari Siciliane, 5-6, 1972, p. 387)

domenica 6 giugno 2010

In una mattina di maggio mio padre è partito…

Questo scritto è del 2003. Quale fu la molla che mi spinse a scrivere questi ricordi? Non so, francamente. Poco tempo prima era morto uno dei miei cani, questo lo ricordo per certo. E, nello stesso periodo, seguivo un Master per formatori degi operatori socio-sanitari. Questo master prevedeva, anche, tra le sue articolazioni tematiche, anche un modulo sulle narrazioni (anche autobiografiche) e sull'uso di esse nei percorsi formativi. La docente, responsabile di questo modulo, era davvero molto brava e coinvolgente, sicchè, quando ritornai a casa sentii l'impulso irrefrenabile di mettermi alla prova, abbandonandomi al flusso narrativo, senza troppe razionalizzazioni.

Una mattina di inizio maggio mio padre è partito.
Andava in aereo a Roma e sarebbe tornato a casa la sera tardi.
Papà bussa alla porta del bagno per dirmi che sta andando via.
Ciao! Ciao! ho fatto io da dietro la porta.
E lui se ne è andato.
Non poteva più aspettare.
Era già in ritardo, con l’autista già pronto, in attesa, sotto casa.
Per mio padre viaggiare in aereo, anche per viaggi lampo, era un fatto di routine, come prendere l'autobus per andare al lavoro e farne ritorno.
Un commiato casuale... ma chi poteva sapere.
A sera inoltrata, dopo una giornata normale, squilla il telefono.
Mio padre non era ancora rientrato... ma nessuna preoccupazione, a volte – si sa – gli aerei in maniera imprevista portano ritardo.
Io, chiuso in una stanza di casa, facevo l'amore, ignaro, con la mia "fidanzata" inglese, la mia "prima" fidanzata, appena giunta dall’Inghilterra...
Ero felice e gasatissimo di questa visita per la quale, dopo la nostra conoscenza in Inghilterra, avevo aspettato quasi un anno, tenendo nel frattempo con lei un appassionante contatto epistolare...
Mio padre era stato sicuramente contento di questa visita, che rappresentava un punto di svolta rispetto alle mie insicurezze adolescenziali: il segno che io mi fossi finalmente “svezzato” da una sorta di torpidità e di incertezza nell’avviare storie con le donne.
Squilla il telefono ripetutamente.
Mia madre va a rispondere.
Chi è, le sento chiedere.
Silenzio.
Chi parla?
Una lunga pausa di silenzio.
Poi, la voce di mia madre si leva più acuta.
Lei mi deve dire perché vuole sapere proprio ora se mio marito si trova sull'aereo in arrivo da Roma.
Me lo dica, me lo dica… La voce, sempre più alta, è prossima a rompersi in un lamento.
Pausa.
Di nuovo la stessa iterazione.
Grida scomposte.
E poi, silenzio.
Forse la voce implacabile all'altro capo del filo sta finalmente dicendo qualcosa.
Fine della telefonata.
Esco dalla stanza, ricomponendomi alla meglio, in ansia.
Cosa sarà successo?, mi chiedo.
Lo chiedo a mia madre.
Chi era?
Una giornalista del Giornale di Sicilia.
Che voleva?
Voleva sapere se papà era sull'aereo che veniva da Roma.
Perché lo voleva sapere?
Prima non me lo voleva dire
Poi alla fine te lo ha detto?
Sì.
L'aereo è caduto, è precipitato.
No. Che cosa mi dici!?
Sì, così.
Dopo questo sì, così netto ed irrevocabile, non ci sono più parole che si possano dire.
Cosa facciamo, adesso?
Non sappiamo cosa fare... Non siamo come quelli che vanno e vengono dall'aeroporto ad accompagnare e a prendere i propri familiari. Non sappiamo che fare...
Telefoniamo.
Sì, ma a chi?
Proviamo a chiamare in aeroporto.
Sì, proviamo.
Non si riesce a comunicare, le linee telefoniche per l'aeroporto sono intasate.
Andiamo, allora.
Sì, andiamo.
Dico poche parole a Jane, che è lì ammutolita, comprende e non comprende. Si trova improvvisamente sbalzata dentro una tragedia.
Ci vestiamo, siamo subito pronti.
Ci imbarchiamo sulla piccola cinquecento di mamma e partiamo angosciati, io alla guida.
L'autostrada per l'aeroporto è buia e silenziosa... poche macchine, strada deserta e poi, all’improvviso, il transito di un grumo di ambulanze con la sirena spiegata.
All'altezza di Carini, nel buio pesto della notte, vedo fasci di luce di cellule fotoelettriche che spazzano il fianco di Montagna Longa.
Sono preso dallo scoramento.
Per la prima volta dallo squillo del telefono il nodo che sento nel petto e in gola si scioglie in lacrime e pianto.
Mamma, cosa andiamo a fare là.
E' inutile torniamo a casa.
Andiamo ad aspettare a casa.
E' stato così che arrivati all'aeroporto senza nemmeno fermarci abbiamo imboccato la strada del ritorno.
Questo è quello che io ricordo.
Ma in verità – qui mi sovviene il racconto di mia madre, trentuno anni e dieci giorni dopo – siamo arrivati sin dentro all’aeroporto e, scesi dall’auto, siamo entrati nella sala arrivi.
Uno spazio desolatamente vuoto si è aperto davanti a noi.
Se ne erano andati tutti.
Un funzionario ci è venuto incontro…
Volevamo sapere…
Ma ci interrompe prima che noi si possa dire altro.
È inutile che stiate qua; andate a casa!
Perché, perché, fa mia madre.
Intanto si avvicina un giovane giornalista che noi conosciamo.
Anche lui ripete le stesse cose, con gentilezza.
Ha un giornale arrotolato che sporge dalla tasca.
Mia madre lo afferra e lo dispiega.
Legge la notizia “Si schianta su Montagna Longa l’aereo proveniente da Roma, morti i passeggeri e gli uomini dell’equipaggio". Non ricordo più il numero esatto.
Mia madre scorrere con lo sguardo l’elenco delle vittime. E lì c’è scritto a chiare lettere anche il nome di mio padre: Francesco Crispi.
Un cinico servizio a parte sulle personalità di spicco della cittadinanza a bordo dell’aereo.
Comprendiamo il motivo della telefonata di prima.
Era stata la cronista, autrice dell’articolo, a chiamare perché voleva avere la certezza del nome prima di includerlo nell’elenco, voleva essere sicura che si trattasse di quel Francesco Crispi, noto a Palermo negli ambienti giornalistici e della cultura, e non di altri.
Al ritorno, passiamo dalla strada dove c’è l’abitazione dei miei zii.
Saliamo per un po’. Andiamo a trovarli e a parlare con loro.
No. No. Cosa possiamo fare, cosa dire.
Torniamo a casa.
A casa tutti uniti, ad aspettare notizie.
Siamo tutti in piedi, in una situazione innaturale, un tempo sospeso, non c’è niente che si possa fare, solo attendere.
Storditi.
Attoniti.
Intanto si raccolgono gli altri parenti, i fratelli di mio padre, Aldo, il fratello di mamma, Zio Giovanni la moglie e figli, forse sono andati in aeroporto e anche loro aspettano notizie perché a bordo dell'aereo c'era anche la figlia Elisabetta.
Un dolore terribile.
Penso con amarezza che la mattina, mio padre non l'ho nemmeno salutato in modo appropriato.
So già che non lo vedrò più, nemmeno da morto.
È morto, una parola che non si può nemmeno pronunciare.
Proprio adesso che non c'è più sento in maniera atroce la sua mancanza, proprio adesso che avevo cominciato a differenziarmi e a crescere con una mia identità, rispetto alla sua personalità ricca e articolata, e alla sua cultura. Penso a tutte quelle cose che mi avrebbe potuto dare e che io, per orgoglio e per desiderio - impossibile – di crescita autonoma avevo cercato di rifiutare ( il rifiuto viscerale della solita frase detta da molti “E’ il figlio di Ciccio Crispi” frase da cui ogni volta ero inorgoglito ma che nello stesso tempo mi faceva sentire mortificato e annullato – mi dicevo: allora, per me, per le mie qualità io non valgo niente!), quelle cose che malgrado tutto, malgrado i miei contorcimenti, mi sono entrate dentro e che anche adesso mi porto dentro.
Non vedrò più mia padre. È una realtà dura e ineliminabile. Mi sento anche profondamente colpevole, come se con il mio bisogno di ribellione, fossi stato io a farlo morire, a mandarlo via per sempre.
Dopo due giorni di attesa è stata portata a casa una bara già sigillata.
Un lucido sarcofago di legno che fa male agli occhi solo a guardarlo.
Gli sgabelli di legno stile impero, del salotto, su cui lo appoggiamo gemono e si sconocchiano sotto il suo peso.
Corone di fiori invadono la stanza, comincia una processione interminabile di volti compunti di cui non ricordo più nulla.
Mio padre è la dentro... ma ci sarà poi davvero? Che cosa ci sarà poi là dentro?
Me lo sono chiesto allora e me lo sono chiesto più volte, in tutti gi anni successivi.
Nei giorni successivi servizi giornalistici a non finire, fotografie impietose.
Qualcuno, mi mostra una foto, pubblicata sul quotidiano della sera.
Un recinto di filo spinato e a terra indistinta una macchia scura, forse un corpo raggomitolato.
Questo stesso qualcuno mi dice: alcuni dicono che questo fosse il corpo di tuo padre, nel punto in cui lo hanno ritrovato.
Non sono andato come mio zio Giovanni all'Istituto di Medicina Legale a cercare di riconoscere i resti mortali di papà, se c'era qualcosa da riconoscere.
Mi hanno detto di non andare.
Io, codardo, ho accettato l'imposizione.
Negli anni, me sono pentito.
Me ne pento sempre.
Avrei dovuto bere da questa coppa sino in fondo, per capire la durezza della vita.
E, invece, ho preferito non farlo.
Anche se nessuno lo hai mai riconosciuto ufficialmente, prima dell’arrivo dei primi soccorsi, sciacalli hanno saccheggiato i bagagli sparsi sulla montagne, cercando oggetti di valore tra le cose che non si erano polverizzate nell'esplosione.
Delle cose di papà non si è trovato niente, ma viaggiava leggero, la borsa dei documenti, le cose per un giorno di viaggio.
A distanza di giorni, ci hanno chiamato alla caserma dei carabinieri. Saloni vuoti, con i soffitti altissimi, luoghi intrisi di malinconia, in un ufficio arredato con mobili dozzinali, ci hanno consegnato un portafoglio. Il portafoglio di papà, e all’interno il suo tesserino da giornalista, bigliettini di appunti, niente soldi, la patente di guida ce l’aveva portata lo zio Giovanni dall’Istituto di Medicina Legale, dove erano stati disposti i corpi. Forse stava appuntata su quello che rimaneva del suo corpo. Ci hanno anche dato alcune chiavi, tra cui quella di una valigetta rigida da viaggio, una chiave profondamente incisa su una delle sue superfici.
Ho pensato che fosse stato l'urto a produrre questo graffio.
In questi momenti, si pensano sempre delle cose stupide ed irrilevanti.
Questa chiave, per anni, l'ho tenuta nel mio portachiavi personali e spesso con il polpastrello ne percorrevo il graffio e cercavo di immaginare la durezza dell’urto che era stato capace di provocarlo.
Dopo due mesi, accompagnato da mia cugina Patrizia e dallo zio Aldo, in un caldissimo pomeriggio di Luglio, affrontiamo la salita, su per le balze di Montagna Longa, dal lato di Cinisi.
Una strada percorribile dalle auto, solo fino ad un certo punto, poi dobbiamo proseguire a piedi su per l’erto fianco del monte.
Mio zio è costretto a rinunciare perché si sente male.
Noi continuiamo e infine arriviamo sulla cima piatta, lunga e stretta, grosse rocce calcaree affioranti dal terreno, disi in piena vegetazione, non un albero su questa cresta spesso battuta da venti impetuosi, il terreno, nei punti in cui è libero dalla vegetazione spontanea, è disseminato di minuti frammenti di metallo plastica, stoffa, tutti i detriti più voluminosi sono stati asportati per le perizie (in verità, furono eliminati frettolosamente e mai conservati per uno studio accurato della dinamica della tragedia: niente di simile a quello che venne fatto successivamente per l'aereo precipitato sui cieli di Ustica; ma questa è un'altra storia).
Rimango a lungo, chinandomi a raccogliere, di tanto in tanto, i frammenti ed esaminandoli, come se, dall’esame di un singolo frammento, io possa trarre elementi che mi aiutino a comprendere l’enormità della tragedia che ha coinvolto, in un solo istante, così tante persone. Qau e là scopro qualche frammento di valigia lacerato, un po’ più grande.
Il vento soffia di continuo, facendo oscillare la distesa d’erba.
Si respira una profonda solitudine, ma è una solitudine che ispira sentimenti di pace e di quiete.
Non ci sono segni appariscenti di ciò che è avvenuto, segni di distruzione e di lotta, tracce di fuoco.
Quando ero più piccolo mio padre mi aveva detto, commentando l’improvvisa morte di un suo collega giornalista per infarto (che, al mattino, era stato trovato morto alla sua scrivania dai suoi familiari), È questo il modo in cui vorrei morire. Di colpo. Una rapida transizione dalla vita alla morte.
Mi chiedo, mentre sto in piedi tra i ciuffi di disi che oscillano nel vento, se questo suo desiderio sia stato esaudito oppure se ha fatto in tempo ad accorgersi che era giunto il momento e se ha avuto paura.
Il vento soffia eterno e non da risposte.
Quando sono tornato a casa, o l’avevo già fatto prima, ora non ricordo, sono andato a leggere un libro caro a mio padre, Il ponte di San Luis Rey, di Thornton Wilder, cercando delle risposte sul perchè le vite di alcuni uomini vengano ad essere accomunate dallo stesso destino.
Ancora oggi, non so se le ho trovate queste risposte, né se mai le troverò.
Perchè si vive, perchè si muore.
Perchè alcuni vivono, perchè altri muoiono.
E' tutto.
 
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