mercoledì 25 febbraio 2009

Biografia 1 - Le origini

Francesco Crispi è nato a Palermo il 1° febbraio del 1918 da Salvatore e da Erminia Orestano.
Secondogenito, presto divenne il primo della fratria a causa della morte precoce del fratello Andrea.
A distanza di alcuni anni l'uno dall'altro arrivarono gli altri fratelli: Giuseppe, Luigi, Maria Annunziata.
Salvatore Crispi (il nonno "Totò) era un uomo grande ed imponente. Un bell'uomo dalla carnagione chiara e dagli occhi azurri. In gioventù aveva vissuto - secondo quello che mi raccontava mio padre - come un "giovin signore". Il padre (Francesco), infatti, essendo - pur non aristocratico - un ricco rappresentante della borghesia terriera del tempo, possedeva una tenuta agricola che gli dava delle rendite sufficienti per condurre una vita agiata e per consentirla ai suoi figli.
ll nonno, da giovane, possedeva un proprio calesse personale (che sarebbe come possedere una piccola smart o spiderina, oggi) e faceva la bella vita.

Poi il padre, rapidamente, perse tutto al gioco e trascinò la famiglia sull'orlo del collasso economico.
Il nonno, da allora in poi, dovette arrangiarsi per sbarcare il lunario.
Mise da parte il calessino e la vita di svaghi, e riuscì ad entrare nelle Ferrovie dello Stato, dove poi lavorò sino al pensionamento.

Nel 1960 , nella ricorrenza del centenario dell'Unità d'Italia, venne insignito dall'allora Presidente della Repubblica, Leone, dell'onorificenza di "Cavaliere del lavoro".
Da solo, il nonno - con il suo duro lavoro -sostentò l'intera famiglia, dato che la nonna - come si usava a quel tempo - non lavorava ma si occupava soltanto della conduzione domestica e dell'educazione dei figli.
Sono queste le cose che più volte mio padre mi ha raccontato, quando ero piccolo: non credo che sia mai sceso in maggiori detagli, ma d'altronde, allora ero troppo piccolo per poterlo fare.
Mi raccontò anche che suo nonno (pensò che si riferisse al padre di suo padre) era un gran mangiatore e che morì d'indigestione, per aver ingurgitato golosamente un intero cesto di fichi appena colti che gli avevano portato dalla campagna appena colti.
Invece, la nonna Erminia (che tutti chiamavamo nonna "Ia") apparteneva alla famiglia Orestano, anch'essa numerosa e ricca. Il fratello Fausto, medico-chirurgo, infatti aveva fondato una Casa di Cura (la "Clinica Orestano"), un'altro fratello Francesco si era dedicato, invece, agli studi di filosofia giuridica e si era trasferito in Germania per perfezionare la sua preparazione, come i filosofi solevano a fare a quei tempi.
Dalla Germania (Lipsia e dintorni), Francesco inviava di continiuo alla nonna cartoline illustrate dove, in ogni spazio bianco disponibile, con scrittura minuta e fittissima, raccontava all'amata sorella ciò che aveva fatto e visto.
Completava il quadro la sorella Susanna, volitiva e decisa che morì poi quasi centenaria.
Fausto (medico-chirurgo e fondatore della Clinica Orestano), essendo molto aperto culturalmente alle mode del tempo (erano i primi del Novencento ed era quello il periodo della "scoperta" della montagna e dell'avvio delle "vacanze"), con il supporto di Susanna estremamente intraprendente, importò questi nuovi fermenti in Sicilia e, alla guida di un manipolo di ferventi seguaci, fondò il Club Alpino Siciliano (CAS), individuando il primo rifugio alpino nelle Madonie, sopra Collesano (il primo nucleo del rifugio di Piano Zucchi).
Ma questa è tutta un altra storia, anche se - per quanto concerne mio padre - la traiettoria del CAS si incrocierà successivamente con la sua vita, ingenerando in lui una grande e sviscerata passione per il walking nei grandi paesaggi alpini e dei nostri monti.

giovedì 19 febbraio 2009

In morte del padre di un mio amico podista

Questa, rispetto al tema che mi sono dato è una digressione - o forse no.
Mi viene spontaneo, comunque inserire questo materiale.
Ieri o l'altro ieri, adesso non so bene, è morto dopo una lunga ed invalidante malattia, il padre di un mio amico podista, runner sulle ultradistanze ed anche armato del pallino della scrittura che lo porta a tradurre sulla carta le sue sensazioni, emozioni ed esperienze durante la corsa.
Pochi giorni prima mi aveva inviato un suo breve scritto, intensamente autobiografico, nel quale raccontava il peso emozionale dell'asssitenza al padre, malato terminale di una malattia che non perdona, ormai in uno stato di evoluzione avanzato.
Ieri, mi ha scritto per comunicarmi del trapasso di suo padre.

Caro Maurizio, è con il palato asciutto che ti comunico il decesso di mio padre.
Perdona questo messaggio portatore di tristezza, ma dal momento in cui ti avevo trasmesso un piccolo manoscritto realizzato nei giorni di sofferenza, quando le cure non avevano più senso di esistere, mi è parso giusto farti partecipe del mio dolore.
Nonostante i dissidi e le incomprensioni, il tempo ed il buon senso hanno riunito i nostri cuori più di quanto non fosse sperabile.
Mio padre è stato un grande uomo di sport e si porta dietro tutto il bene e l'amore che ha regalato alla sua passione: il ciclismo.
Io lo ricorderò per questo e per altro, ma soprattutto porterò sempre una parte della sua anima sulle strade del mondo.
Su quelle in cui i miei passi si fonderanno con il suo respiro.
A presto.
A*****

Io gli ho
subito inviato una mail, tentando di esprimere la mia solidarietà e la mia empatia.
In simili momenti, per cercare di capire ed essere vicini ad altri, possiamo solo fare riferimento a ciò che ci è già noto per vicissitudini personali e, quindi, non ho potuto fare a meno di ripensare a mio padre e alla sua dipartita.
La mia risposta:

Carissimo A*****,
in questi momenti ci sono ben che poche parole che si possano pronunciare.
Valgono soltanto l'empatia, la capacità di immedesimazione nel dolore di chi - come te - ha subito il dolore della dipartita di una persona cara, come soltanto un padre o una madre possono esserli.
Spero soltanto che tuo padre che, sicuramente ha seguito le tue imprese sportive, abbia potuto essere consapevole del compimento di questa tua altra impresa (la scrittura e la pubblicazione a stampa del tuo bel libro) e che l'abbia potuto tenere tra le mani, prima di andar via.
Pensa - per consolarti - che tuo padre ti ha visto arrivare sino agli anni della adultità, della maturità, ha potuto vedere che la tua vita prendeva forma e che tu compivi le tue scelte e, infine, cosa non da poco, ha potuto seguire - lui stesso sportivo, a quanto mi dici - l'evolversi della tua passione - intima, introversa e riflessiva - per il podismo. Pensa che, certamente, per tutte queste cose, egli non ha potuto che essere contento di avere un figlio che gli garantiva in questo modo una sua prosecuzione in questo mondo.
Il vero lutto, il vero dolore, nella perdita di una persona cara è nel fatto che si spegne quella parte di noi che viveva nella sua mente.Questa, anche nella mia esperienza personale, è la cosa più dura con cui confrontarsi.
Mentre chi non è più potrà vivere, per sempre, nel nostro ricordo.
Ti sono vicino in questo grande dolore.

Poi, in un secondo momento gli ho inviato una seconda mail, partendo da alcune considerazioni sul suo racconto così intensamente autobiografico. Anche qui, in questa seconda lettera, non ho potuto fare a meno di parlare di mio padre e della sua morte.

Quello che hai scritto in "URLO" è intenso, di un'intensità che fa davvero male. E' qualcosa che posso comprendere perché da medico sono stato vicino al morire, qualche volta, quando lavoravo in una divisione di neurologia.
Come uomo, invece, questa esperienza straziante del lento morire di una persona che mi è cara, non l'ho ancora fatta, per fortuna.
Mia madre, anzianissima, è ancora con me.
Mio padre è morto quando avevo 22 anni, ma non l'ho mai visto morto. E' morto in un disastro aereo e io l'ho visto rientrare a casa già chiuso dentro una bara, forse il suo corpo - lì dentro, invisibile ai miei occhi - era straziato e pietosamente ricomposto.
Ma il doverlo riconescere mi è stato risparmiato.
Mio padre è morto, essendo in perfetta salute (54 anni) con la prospettiva ancora di una lunga vita davanti a sé. E' morto lavorando.
Era giornalista e tornava a casa da uno dei suoi viaggi di lavoro (prendeva l'aereo come se fosse un autobus o un taxi).
Quando si parlava della morte, diceva che voleva morire rapidamente, quando ciò sarebbe dovuto capitare.
Lui, magari, pensava che il suo veloce morire sarebbe stato determinato da un infarto, o magari da un altro tipo di morte fulminante. Ma E sono certo che non pensava certamente ad una morte lenta.
Non è stato un infarto, ma il suo trapasso per lui è stato egualmente fulmineo, anche se - per frazioni di secondo - avrà avuto forse il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo e di prepararsi. Anche se, per questa evenienza, non si è mai pronti.
E' stato fortunato a morire così?
Non so.
Non posso rispondere.
Certo, io non mi sono sentito fortunato per il modo della sua morte.
Mi sono ritrovato senza l'essenziale confronto con una figura paterna proprio negli anni cruciali, quelli in cui - al prezzo di un conflitto smisurato con lui - stavo costruendo una mia "vera" e sofferta indipendenza.
E, a causa della sua improvvisa scomparsa che ho considerato alla stessa stregua di un tradimento, mi sono sentito defraudato.
Dal suo punto di vista, invece, se non fosse morto allora in questo modo repentino, magari il trapasso sarebbe avvenuto in una maniera lenta e dolorosa.
Io sarei stato contento per averlo avuto più a lungo con me, ma lui no, avrebbe detestato la sorte che un destino malevolo gli imponeva.
Certo è comunque che la medicina contemporanea più che "curare" infligge a volte delle sofferenze intollerabili e condanna a forme di vita "sulla soglia" che non sono più vita, perché non c'è più spazio per la gioia e la leggerezza, anche soltanto in piccole dosi. Se non si può più sorridere, se ogni giorno è un infinito calvario, qual'è il senso del sopravvivere per qualche giorno o qualche ora in più?

 
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