venerdì 20 marzo 2009

Sul cognome Crispi

Mio padre soleva dirmi che noi Crispi eravamo pochissimi: anzi, per come me lo diceva (e consideriamo che le sue parole avevano certamente un impatto suggestivo sulla mia fantasia di bimbo) mi lasciava intendere che noi eravamo pressocchè gli unici a portare il cognome dell'illustre statista (con il quale - come spiegherò meglio in seguito - siamo anche imparentati).
Quando ero piccolo la cosa mi riempiva d'orgoglio ed era per me motivo di vanto.
Del resto, in questo non facevo che seguire l'attitudine di mio padre che, nel suo stile taciturno, era profondamente orgoglioso della tradizione di famiglia e sentiva profondamente l'onore di portare non solo lo stesso cognome ma anche l'identico nome di Francesco Crispi, patriota mazziniano prima e poi Primo ministro in uno dei primi governi dell'Italia unita.
Poi, nel 1994, venne fuori il nome di Michelangelo Crispi, catanese, che a Indianapolis nel 1994 vinse l'oro nei Campionati del Mondo Pesi leggeri di canottaggio in doppio e che replicò nuovamente nel 1999, nella stessa specialità).
Subii un piccolo grande shock cognitivo. Grande fu la mia delusione nel rendermi conto che crollava così un mito che, in qualche misura emulando mio padre, avevo costruito dentro di me a proposito della nostra presunta unicità.
Quel certo è che noi (questo nostro specifico, io e mio fratello, i miei cugini e la sorella di mia padre) siamo tra i pochi, in Italia, ad essere imparentati con lo statista: l'altro ramo della famiglia a vantare quest'ascendenza è quello dei Crispi Chiarenza che si collega direttamente con un nipote di Francesco Crispi.
Altri Crispi, imparentati con lo statista, vivono in America latina, dove il figlio naturale di Francesco Crispi si trasferì a vivere, spinto dal padre imbarazzato per la sua condotta disdicevole, al tempo dello scandalo della Banca d'Italia, di cui tra l'altro racconta in forma narrativa Sebastiano Vassalli nel suo romanzo "Il cigno" (per leggere la recensione a suo tempo pubblicata su "L'indice" clicca qui).
In ogni caso i "Crispi" in Italia sono davvero pochini: qualche centinaio appena, sparsi in piccoli nuclei in quasi tutto il territorio nazionale, ad eccezione - sembrerebbe - della Puglia e di poche altre regioni.
Rimane tuttavia certo il fatto che la mia famiglia sia di origine albanese e che discenda da quel nucleo di Albanesi, migranti (così si direbbe oggi) che arrivarono in Italia per sfuggire alla'avanzata dell'impero ottomano, diffondendosi prima nell'Italia meridionale (versante adriatico e ionico) e poi in talune zone della Sicilia, dove dettero vita ad alcuni paesi di "etnia" pura che vennero edificati ex-movo (come, ad esempio, Piana degli Albanesi) e ad altri a composizione mista (come, appunto, era ed è Palazzo Adriano).
Ma di questo racconterò più nel dettaglio in un successivo post.
Per quanto riguarda il significato del cognome, sempre mio padre solleva dirmi - probabilmente - sulla base di un sapere familiare tramandato, ma non suffragato da concrete basi linguistiche, che "crispi" in Albanese significasse "capo di casa".
Su questo aspetto vorrei fare una richiesta approfondita: ma su questo campo internet è avaro di informazioni perchè quasi tutte le indagini sull'origini dei cognomi sono accessibili dietro pagamento.
Ma per sciogliere questo dubbio effettuerò, prima o poi, una ricerca in Biblioteca o nel "Dizionario dei cognomi italiani".

mercoledì 18 marzo 2009

Gli anni del dopoguerra


Mia madre racconta che mio padre tornò dalla prigionia magrissimo, pelle ed ossa.
Arrivò a Palermo, via mare, forse da Napoli, soltanto alla fine del dicembre 1945.
Era stato tenuto in un campo di prigionia dei Francesi, in Algeria, al limitare del deserto, in condizioni ben più dure rispetto a quelle che toccarono, per esempio, ai soldati italiani caduti prigionieri degli Inglesi.
In quei primi giorni di viita assieme dopo che i miei genitori si erano ricongiunti, mio padre aveva sempre desiderio di mangiare dolci e presto ritornò ad essere quello di prima.
Mia madre lo assecondava più che poteva.
Ogni pomeriggio si recavano in una rinomata pasticceria di Trapani, città in cui rimasero a vivere per qualche tempo.
Infatti, alla fine della guerra, mia madre aveva ripreso ad insegnare a Trapani e la signora Sergio, che la ospitava, aiutò mio padre a trovare un impiego presso l’ufficio della “Postbellica”: presso ogni Prefettura d’Italia, infatti, era stato attivato un ufficio di questo tipo per provvedere alle necessità di tutti coloro che, a causa della guerra, avevano subito dei danni.
Ritornò indietro con delle abitudini di cui alcune le conservò a lungo.
In prigionia, benché da ufficiale avesse il compito di tenere alto il morale della truppa (cui, assieme agli altri suoi pari grado, teneva corsi di storia e di altre materie: ed era tornato con una serie di quaderni fitti di appunti che gli servivano da traccia per le sue lezioni ai soldati, dei veri e propri strumenti di lavoro, costruiti a memoria, avvalendosi della sua cultura), in considerazione delle condizioni spartane di vita, aveva preso la consuetudine di sputare per terra e, senza accorgersene, continuava a farlo, di tanto in tanto, anche in casa: per sopperire a tale inconveniente, venne ripristinata nell'uso un'antica sputacchiera di porcellana di famiglia che, in tempi antichi, in tutte le case era un oggetto consuetudinario.
L'altra abitudine che mantenne sempre era quella di scaldarsi l'acqua per la barba in un vecchio pentolino di alluminio. L'acqua per questo scopo doveva essere bollente: ed era lì, in quel pentolino, che intingeva il suo rasoio (una comune "zappetta" gillette). Q
uesto piccolo rito mattutino era una necessità assoluta, benché avessimo l'acqua calda corrente dal rubinetto.
Anche questo oggetto è conservato nei recessi degli armadi della cucina: l’ho scoperto proprio qualche tempo fa.
Dalla prigionia mio padre riportò indietro alcuni oggetti che teneva sempre in mostra poggiati sulla sua scrivania: una forchetta ed un cucchiaio di alluminio o di qualche altro metallo di scarso valore, nerastri per l’ossidazione.
Erano le sue posate personali, quelle con cui mangiava da prigioniero.
Poi, riportò indietro quei quaderni di appunti, di cui accennavo prima, e alcuni disegni a pastello realizzati da un suo compagno di prigionia che raffiguravano varie vedute del campo, tavole raccolte in un album realizzato con una legatura artigianale ed intritolato "Barbelet" (ovvero, Filo spinato) oltre ad un suo ritratto di una serietà triste.
Ma anche una vecchia Bibbia, in Francese, rilegata in tela verde consunta e macchiata, che gli era stata data dal personale della Croce Rossa in visita al campo.
E anche questa Bibbia la teneva nel suo studio.


Del periodo della prigionia usava raccontarmi due episodi.
C'era molta fame e i Francesi trattavano male i prigionieri italiani. Non perdonavano loro l'attacco proditorio sferrato da Mussolini proprio quando la guerra d'invasione dei Tedeschi era stata vinta. Bene, capitò un'invasione di cavallette: mio padre mi raccontò che ne catturarono grandi quantità e se ne nutrirono, cuocendole alla meno peggio. "Che sapore avevano? - gli chiesi io, meravigliato. "Mah! non erano male - rispose mio padre - avevano il sapore dei gamberi fritti, più che altro". Fu un’autentica festa, mi raccontava, questo pasto extra, autenticamente piovuto dal cielo.


L'altra cosa che mi raccontò era il rito della raccolta di briciole di pane raffermo, avanzate dal desco dove giornalmente si sedeva a consumare il magro pasto distribuito dai Francesi. A turno, per una settimana, uno delle tavolata raccoglieva quelle briciole e le conservava come un bene prezioso, per arricchire - al settimo giorno - la zuppa da anacoreti che veniva servita loro.
La fame patita in quei giorni aveva lasciato il segno: mio padre era abilissimo a spolpare i più minuti ossicini del pollo arrosto che di tanto in tanto mangiavamo, sino a lasciarli incredibilmente puliti e, nello stesso modo, divorava minuziosamente calli e grassetti della fetta di carne che io, con sdegno, lasciavo da parte.

martedì 17 marzo 2009

A Palazzo Adriano, le radici di mio padre e della famiglia Crispi


La famiglia Crispi è originaria di palazzo Adriano: un piccolo paese chiuso tra i monti che circondano la valle del Sosio, irrigua e verde di coltivazioni tanto quanto sono brulli i monti attorno.
Per arrivare a Palazzo si passa ai piedi di Prizzi, arroccata tutta sbilenca su di un'altura, quasi fosse in procinto di scivolare giù.
Un tempo la strada che conduceva a Palazzo Adriano era una dead-end road.
Non vi erano continuazioni verso altre mete e per arrivarci si seguiva la strada provinciale che arrivava a Corleone.

Frugando nella mia memoria di bambino, ricordo che trovavo sorprendente il momento in cui ci immettevamo in una valle che risultava tanto più verdeggiante dopo aver attraversato un paesaggio così brullo e solitario: era quasi come ritrovare un'oasi dopo il deserto, dopo un viaggio lento e avventuroso, come erano allora gli spostamenti in auto lungo strade per lo più strette e tortuose.
Quelle erano proprio delle terre sperdute nel cuore profondo della Sicilia, un pezzetto di territorio di confine tra la provincia di Agrigento e quella di Palermo.


Mio padre sentiva con forza e orgoglio il legame con la terra d'origine della sua famiglia.
Lì, c'era la casa avita, collocata proprio lungo il corso (oggi, via Francesco Crispi) che si diparte dalla piazza dove le due chiese si fronteggiano orgogliose, ma non litigiose, quella di rito greco-ortodosso e quella cattolica.
Era proprio la casa sulla cui facciata è stata allocata in tempi recenti una lapide marmorea che ricorda come Francesco Crispi (lo statista) abbia trascorso qui gli anni formativi della sua giovinezza.
Una semplice casa ad un piano, conil fronte piuttosto stretto, ma sviluppata in profondità.
Dietro di essa, la campagna e, in particolare, un orto sempre di proprietà dei Crispi cintato da alte mura.
Malgrado la sua semplicità, era pur sempre una casa padronale, dotata di porta carraia e di patio interno dove si affacciavano le porte di diversi magazzini adibiti alla conservazione di derrate agricole, come le giare dell'olio e le granaglie, e di utensili.
Una stretta scala consentiva di salire al piano nobile.


Già, nel primo dopoguerra, gran parte di questa struttura era stata venduta, purtroppo, ad cittadino "gentile" di palazzo Adriano (non ortodosso), tale Palumbo, compreso il piano terra.
All'uso dei nonni (il nonno Totò e la nonna Ia) che tornavano sempre lì a passare l'estate, assieme ai miei zii (lo zio Pippo che si sposò più tardi e alla zia Mariannù) rimaneva soltanto la parte posteriore del piano di sopra, comprendente un'ampio stanzone che serviva da sala da pranzo e salotto/soggiorno - e anche da stanza letto per quando ci andavamo con mio padre e mia mamma.
Non ricordo che in queste circostanze ci fosse anche mio fratello che negli anni dell'infanzia stava altrove per motivi di salute.
In queste occasioni dormivamo sui matterassi di paglia stesi sui tavolacci sostenuti dai classici "trispiti" di ferro battuto.
Ho dei vividi ricordi di questa casa.
Nonna Ia aveva ricavato la cucina all'interno di uno stanzino stretto e lungo (meno di un metro di lunghezza), il fornelletto a gas collocato contro la parete in fondo dove si apriiva una piccola finestrella ovale.
Eppure, malgrado le difficoltà logistiche - per quel che ricordo - cucinava sempre alla grande, autentiche leccornie: e da quel cucinino si spandevano per la casa sublimi odori di preparazioni buone e semplici.
Mio padre amava profondamentamente quei luoghi: evidentemente, anche se tutta la sua vita di studente e di adulto si era sviluppata nella grande città dove era pure nato, lì sentiva le sue radici, come pure era per lui forte e salda la consapevolezza del contatto identitario con l'importante genealogia della nostra famiglia, che non mancava mai di ricordarmi.


Andare a Palazzo, per lui, era modo per tornare alla sua infanzia e adolescenza, e ad intere estati trascorse lì.
Lì c'era "Peppineddu", un suo caro amico d'infanzia che era rimasto lì a vivere: a mio padre era caro intrattenersi a chiacchierare con lui ogni volta che scendeva in piazza.
Tante volte d'estate, anche se solo per pochi giorni di seguito, andavamo a Palazzo a trovare i nonni che lì passavano le loro estati sino a quando il nonno in una brutta caduta notturna non si spezzò il femore e, da allora, benchè clinicamente guarito, non volle più muoversi da casa.
Ricordo che, appena arrivati, mio padre andava subito a comprare il pane di paese cotto a legna, ancora fragrante, e allestiva delle grandi merende a base di pane e olio, insegnandomi così il gusto delle cose semplici.
Ma ho anche ricordi di tanti giorni consecutivi trascorsi lì in vacanza assieme a Zia Mariannù, ricordi di passeggiate sino alla sponda del fiume e oltre, le escursioni sino ad una chiesetta - vera oasi di pace - su di un piccolo colle dall'altro lato del fiume da cui si vedeva distendersi il paese con le sue case dominate dalla mole più massicia delle diverse chiese, come anche il passìo pomeridiano nella piazza rivestita di ciottoli antichi, con mia zia che mi teneva in mano, io con indosso i vestitini buoni.
Una volta, lavato e rivestito di tutto punto, già pronto per l'immancabile uscita pomeridiana, muovendomi goffamente, caddi nella bagnina dove la zia aveva appena finito di farmi il bagno, ancora piena d'acqua e mi inzuppai tutto. La zia, pazientemente, dovette aciugarmi e rivestirmi daccapo.
Il mio momento preferito era nelle sere quiete e silenziose (non esisteva la televisione), quando la zia mi leggeva interi capitoli di Pinocchio, da una vecchia edizione di famiglia, che mi restò cara: in anni più recenti la feci rilegare, ma poi il libro purtroppo fu irreversibilmente danneggiato da un allagamento domestico.
Un'altra volta, in occasione di una delle nostre permanenze lì, mio padre mi portò a camminare lungo la massicciata della vecchia ferrovia a scartamento ridotto, ormai dismessa, e mi raccontava di quando, essendo il trenino ancora attivo, lui con la sua famiglia viaggiava con questo mezzo per recarsi a Palazzo e arrivavano tutti sporchi di fuliggine. Questa escursione fu affascinante e avventurosa, anche perchè - ad un certo punto - ci trovammo di fronte ad una galleria e la percorremmo tutta, malgrado il buio pesto ed il sentore ancora persistente di carbone bruciato e fuliggine, sino ad uscire alla luce all'altra estremità.
In un'altra occasione, mentre viaggiavamo in macchina lungo la strada provinciale che conduceva in paese, mio padre venne fermato da uno per dare soccorso ad un contadino che era stato appena morso da un mulo. Lo trasportammo in auto sino al più vicino presidio medico. Ricordo il sangue che sgorgava copioso dalla ferita, imbrattando i sedili della macchina magrado alcuni giornali stesi sopra.
La casa di Palazzo Adriano poi venne venduta, mio nonno ancora in vita.
Fu una decisione presa a sorpresa e unilateralmente da altri, senza nemmeno consultare preventivamente mio padre, che pure era il primogenito, in parte anche come esito delle pressioni che esercitavano alcuni parenti italo-americani cui spettava una parte della casa e che volevano realizzare un profitto, per quanto magro.
Se mio padre fosse stato informato, avrebbe sicuramente fatto qualcosa per impedire questa vendita ad estranei: magari avrebbe cercato di acquistarla lui stesso. Fu una autentica perdita affettiva per lui, un cruccio che gli rimase.
Non ritornammo più a Palazzo. Non ci furono più gite lì.
Anni dopo la morte di mio padre, mio zio Luigi, prese in affitto una piccola casa a Palazzo e lì trascorreva molti mesi all'anno immerso nelle sue letture.
A Palazzo sono ritornato di recente, con molta emozione.

 
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