martedì 5 ottobre 2010

Il matrimonio dei miei genitori

Papà e mamma si sposarono il 4 ottobre del 1942 (se non ricordo male).
Papà era in divisa da ufficiale (con gli stivali di cuoio rigido e i pantaloni alla cavallerizza sbuffanti sul ginocchio e tanto di cinturone), la mamma in abito bianco rimediato alla meno peggio, per quanto poteva consentire la rigida e stentata economia di guerra.
Il matrimonio fu celebrato nella Chiesa della Martorana di Palermo con il rito greco-ortodosso, quello che poi da piccolo - in occasioni successive - imparai a conoscere, con tutti quei rituali altamente simbolici.
Come, ad esempio questi momenti: gli sposi posti dal papas sotto un unico velo (a simboleggiare la permanenza sotto un unico tetto), il momento solenne in cui bevono da uno stesso bicchiere che poi il papas va ad infrangere per terra (nessun altro deve infrangere l'intimità dei due sposi) dietro l'altare, il girare ritualmente attorno all'altare per tre volte consecutive preceduti dal papas ieratico e solenne, i canti, i fumi densi dell'incenso, le iconostasi.
Tutto questo l'ho visto in anni successivi in matrimoni celebrati con il rito greco cui ho presenziato (a partire da quello di mio zio Pippo) e la mia fantasia fervida lo ha applicato alla memoria dello sposalizio dei miei genitori.
Mi dice mia cugina Luciana che mamma custodiva un piccolo album di foto scattate quel giorno e che lo conservava da qualche parte: una volta lei lo vide, perchè la mamma le disse di prenderlo.
Mamma, in diverse circostanze, si era dichiarata determinata a distruggere preventivamente lei stessa una serie di documenti del passato che la riguardavano. Quindi, adesso, non so che fine abbia fatto quell'album.
Prima o poi dovrò mettermi a cercarlo, in qualcuno dei ripostigli degli armadi dove mamma conservava vecchie carte e cose del suo passato.
Il matrimonio fu "poverello", nel senso che tutto fu ridotto - per necessità - ai minimi termini.
Subito dopo la cerimonia, ci fu l'abbozzo di un piccolo ricevimento in un locale adiacente alla stessa chiesa.
Ebbero proprio quattro regali dagli amici e parenti più stretti, tra i quali: un'edizione completa delle opere di Gabriele D'Annunzio in tanti volumi rilegati in azzurro, un centro tavola in legno intagliato, a conca, fatto per riporre le noci, al centro del quale - su di una piccola prominenza - seduto sulle zampe posteriori si ergeva uno scoiattolo con una noce stretta tra le zampine anteriori.

L'invito alle nozze

Il loro matrimonio avvenne nell'intervallo tra la conclusione del periodo trascorso da mio padre presso la Scuola Allievi Ufficiali di Fanteria di Spoleto e la sua assegnazione ad una sede definitiva.
Infatti, poco dopo il matrimonio, mia madre ottenne il trasferimento (già insegnava in una Scuola Media) a Battipaglia, dove papà era stato accantonato con la sua Compagnia in attesa di destinazione.
Di lì a poco, infatti, partì per il fronte d'Africa.
Più tardi, papà mi disse che non era partito per caso: la guerra era ormai persa e, forse, avrebbe potuto evitarlo. Ma lui - mi confidò - chiese di andare egualmente.
Mi disse anche che, di questo, non aveva detto nulla a mamma: era un suo segreto, mi parve di capire.
Partito papà, mamma tornò a Palermo: non aveva più motivo di starsene a Battipaglia.
Mamma fu, a tutti gli effetti, una "sposa di guerra".
Papà, attestatosi con il contingente in Tunisia, venne fatto prigioniero con la sua truppa dalle forze alleate poco dopo un mese dal suo arrivo in terra d'Africa e, da lì, internato in un campo durissimo, gestito dai Francesi, nel profondo Sud dell'Algeria, in pieno deserto.
Fece ritorno soltanto nel 1946, o giù di lì.
Del loro matrimonio ricordo vividamente una sola immagine: si tratta d'una foto in bianco nero, sgranata, che vidi da piccolo e che ho fortunosamente ritrovato, ma in forma di piccolo ritaglio per accoglierlo in un album fotografico di ricordi della prozia Irene [alcuni anni dopo aver scritto questa nota].
Nella foto si vedono papà e mamma che escono dalla chiesa sorridenti, mamma con il suo sorriso un po' timido, papà invece ridente negli occhi, ma con il volto sempre serioso. Papà solenne nella sua divisa da ufficiale, mamma lieve nel suo abito bianco, attorno volti sfocati di parenti giovani e anziani.
Ma tutto è davvero sfumato nel mio ricordo.
Io non c'ero, ovviamente, ma nello stesso tempo attraverso i racconti e le immagini viste per pochi istanti, ora scomparse o introvabili, io c'ero.
E mi rendo conto che la memoria delle cose passate della famiglia andrebbe preservata in ogni modo.
La condanna inevitabile è che, senza uno sforzo attivo, la memoria a poco a poco inevitabilmente sbiadisce e si fa sfumata.
Quando c'è tempo per farlo, si rimanda sempre, pensando che - in seguito - ci saranno sempre tempo e occasioni idonee e immaginando che la nostra memoria non ci tradirà mai.
Quando finalmente giunge il momento di fissare le cose una volta per tutte, trasformando i ricordi in storia, ecco che ci rendiamo conto che ciò che ci pareva chiaro e nitido ha perso definizione e che, nel frattempo, tanti dettagli si sono inabissati per sempre.
Penso adesso, a conti fatti, che - con i nostri figli - bisognerebbe regolarsi come ha fatto Tiziano Terzani con il proprio, quando comprese che la sua fine - di lì a poco - era segnata.
Far loro dono delle nostre narrazioni, soddisfare ogni loro curiosità relativa al nostro passato, ma chieder loro in contraccambio il dono di un po' del loro tempo ogni giorno, disponibilità all'ascolto e la "registrazione" dei racconti.
Per realizzare questo occorre che ci sia una volontà condivisa (direi di più, il desiderio di "donarsi" reciprocamente) e l'accettazione bilaterale dell'impermanenza.
Ora che mamma non c'è più non ho più nessuna fonte per abbeverarmi alla fonte dei ricordi e delle storie.
Rimane soltato la mia memoria fallace ed incerta.

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