sabato 11 aprile 2009

L'importante "presenza" dell'avo Francesco Crispi nella nostra famiglia


Francesco Crispi lo statista (ma prima ancora fervente patriota mazziniano e uno dei principali artefici della Spedizione dei Mille) rappresenta nella nostra famiglia un personaggio illustre, ma - per me - anche una presenza ingombrante.
Mio padre, che ne portava
perfino lo stesso nome, soleva spesso spiegarmi il legame genealogico che ci univa allo statista.
Mio padre riteneva che Francesco Crispi fosse stato un grande: un grande patriota e -
durante il suo governo - un grande riformatore. Pensava infatti che queste qualità avessero fatto pesare la bilancia a favore di Crispi sino alla malaugurata ed infausta avventura imperialista in Etiopia.
Mio padre spesso mi ripeteva che la storia non perdona i perdenti e che la sanguinosa sconfitta di Adua ebbe un peso determinante nel creare attorno a Crispi statista un alone negativo di pessimo uomo di governo. Mi diceva spesso, pur specificando che la storia non si costruisce nè con i "se..." nè con i "ma...", che se Crispi avesse vinto ad Adua il giudizio degli storici sarebbe stato profondamente diverso.

Nello studio di mio padre faceva mostra di sè una foto di Crispi anziano con grandi baffoni candidi alla Bismarck (che riflettevano il fascino esercitato su di lui - nell'ultima parte della sua attività politica - dallo statista prussiano), ma campeggiava anche un busto in bronzo di Crispi giovane in toga da avvocato che egli aveva appositamente commissionato allo scultore palermitano Nino Geraci, autore di diversi statue che abbbelliscono la nostra città (tra cui la fontana della Sirena nella piazza di Mondello).
Come espressione di tale passione, mio padre aveva raccolto nel tempo diverse biografie su Crispi, tra le quali anche l'autorevole testo di Denis Mack Smith sulla storia del Risorgimento italiano, in cui si trattava ampiamente del ruolo svolto da Crispi nell'unificazione d'Italia, e mi esortava sempre a leggere e a approfondire, oltre ad alcuni volumi con gli scritti politici e i discorsi parlamentari di Crispi. Alcuni dei quali poi, - quelli più antichi - venivano da casa sua.
Ogni tanto soleva raccontarmi degli episodi significativi, ma - lo confesso adesso con rammarico - nel periodo della mia adolescenza non stavo tanto ad ascoltarlo, anche se poi molte delle cose che mi diceva si sono a poco a poco sedimentate dentro di me, venendo a costituire un humus fertile.
In questo, mio padre era davvero instancabile e non cessava mai di svolgere - senza darlo a vedere - un'opera di insegnamento e di trasmissiome di valori.
Mi diceva anche che il mio cognome mi avrebbe spesso portato a parlare di Francesco Crispi: forse, rifacendosi proprio alla mia esperienza.
Adesso, lo statista Crispi è alquanto dimenticato: quando qualcuno fa fatica a scrivere in maniera esatta il mio cognome, io dico semplicemente - senza stare tanto a sbrodolare - "quelle delle piazze e delle strade".
Allora, quando io andavo a scuola - sino al Liceo - e quando certi valori erano ancora piuttosto vivi e si veniva dall'aver celebrato nel 1960 il primo centenario dell'Italia unita, la parola "Crispi" evocava subito qualcosa di forte, attivava immediatamente delle reminiscenze storiche ed era inevitabile la domanda se fossi imparentato con lo Statista.
Proprio per questo motivo mio padre mi diceva che, nella materia, dovevo essere ferrato, anche per difendere il buon nome della famiglia da eventuali detrattori.
Si capiva bene che mio padre era proprio orgoglioso di questa illustre ascendenza, ma in maniera discreta e non roboante.
Altri tempi, si potrebbe dire: oggi, le ascendenze e i lasciti di idee e culturali non hanno più alcun valore, lal contrario di qualità disvaloriali come l'arrivismo sfrenato e il potere dei soldi che, invece, sono esaltate.
In ogni caso, mio padre aveva ragione: tante volte mi sono ritrovato a parlare di Francesco Crispi, delle cose esaltanti e buone che aveva fatto, ahimè scivolando poi sulla buccia di banana del colonialismo!!!
E, agli esami di maturità classica, in storia venni interrogato proprio su Francesco Crispi, su cui -
proprio per seguire i suggerimenti di mio padre - mi ero accuratamente preparato, studiando diversi testi - mettendo a punto, come si direbbe oggi, una vera propria "tesina".
Fu quasi scontato che mi chiedessero di parlare di Crispi, come da copione. E feci la mia gran bella figura...
Oggi non è più così. Il cognome "Crispi" non suscita più quelle curiosità, non dà luogo ad interrogativi.
Gli eventi che portarono all'Unità d'Italia sono ormai lontani e per alcuni rappresentano una fatidiosa ed ingombrante memoria.
Oggi, la storia si vorrebbe dimenticare.
E, per molti, la storia è soltanto ciò che è accaduto ieri.
Quando nacque mio figlio Francesco, alla parete della stanza della clinica dove venne alla luce, stava una stampa della Palermo di ieri, raffigurante una veduta della via Francesco Crispi dell'anteguerra.
Mi chiesi allora: una coincidenza o la necessità intrinseca del nome?
Tramandando i desideri di mio padre, vorrei che mio figlio, crescendo possa coltivare in sè un simile "orgoglio" genealogico, ma che nello stesso tempo possa ricordare con altrettanto - se non maggiore - orgoglio chi era suo nonno Francesco e quello che, nella sua troppo breve vita, ha realizzato.

mercoledì 1 aprile 2009

Francesco Crispi e il Premio di Teatro Luigi Pirandello


Dal 1966 Francesco Crispi fu segretario del Premio di teatro "Luigi Pirandello" della Cassa di Risparmio V.E. per le Provincie siciliane, dove egli - sino alla sua morte - rivestì la funzione di Capo Ufficio Stampa che, nella sua interpretazione (grazie anche alla lungimiranza e all'apertura mentale del Presidente dell'Ente Ferdinando Stagno d'Alcontres) lo portò ad essere, in linea con le sue idee, un autentico "animatore" e promotore culturale, ma sempre senza grandi battàge e con modestia, con un lavorio costante che lo portava a mettere in rete i saperi e le competenze specifiche di soggetti diversi.
Il Premio che ebbe l'alto patrocinio della Presidenza della Repubblica (una rappresentanza dell'Istituto di Credito Siciliano venne ricevuta per la presentazione del Progetto dall'allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat) veniva assegnato ad un opera di teatro originale che ancora non era stata nè pubblicata, nè rappresentata.
Nello stesso tempo, il Premio dal 1971 (come Premio Internazionale "Luigi Pirandello") conferiva uno speciale premio alla carriera ad autori di teatro o a registi che si fossero particolarmente distinti per la loro creatività o per la capacità di tradurre nella sensibilità moderna grandi classici del teatro.
Fu così che Ingmar Bergman, il grande cineasta svedese, ma anche straordinario regista teatrale, venne a Palermo.
In una foto conservata nel nostro, disordinatissimo, archivio fotografico mio padre viene affettuosamente abbracciato dal grande Ingmar Bergman; in un'altra posano uno accanto all'altro davanti al fotografo.
Fu un fatto eccezionale che Bergman fosse venuto a Palermo, abbandonando la sua piccola isola del Baltico.
Venne, superando la sua naturale ritrosia, perchè comprese - grazie agli scambi epistolari intercorsi con nostro padre - che quella targa lo avrebbe collegato idealmente a Luigi Pirandello e che era un omaggio alla sua abilità e sensibilità nell'averne messo in scena alcuni lavori.
In una ricorrenza legata a Ingmar Bergman (la notizia della sua morte, avvenuta nel 2007), pur commemorando il grande cineasta, i giornali siciliani hanno taciuto di un evento tanto significativo per la cultura siciliana.
Si sa che la memoria dei giornali e dei giornalisti, il più delle volte è corta e che ciò è utile il più delle volte a dare grande risonanza a notizie che non sarebbero tali in verità se solo si menzionasse tutto il loro background storico e le relative radici.

Ma, in noi, ha destato grande perplessità e rammarico il fatto che non si menzionasse minimamente il fatto che proprio a Palermo il grande Bergman era venuto per ricevere la targa "Luigi Pirandello".
Mio fratello Salvatore Crispi, proprio in questa circostanza, ha ritenuto opportuno indirizzare una lettera alla redazione del Giornale di Sicilia, per rinfrescare la memoria sui rapporti tra il premio di teatro Luigi Pirandello e Ingmar Bergmann.
Ecco la sua lettera che venne successivamente pubblicata sul Giornale di Sicilia del 20 agosto 2007, nella rubrica "Lettere", con il titolo "Il regista Bergman vinse a Palermo la prima targa Luigi Pirandello" mentre l'occhiello così recitava:"Era il 1971, il maestro venne premiato al Teatro Biondo. Fu motivo di grande orgoglio per tutta la città".
La scomparsa del regista Ingmar Bergman ha suscitato una grande emozione ed un grande rimpianto, poiché egli, con le sue opere immortali, ha saputo fotografare i contesti umani e sociale del periodo contemporaneo.Questo triste evento è stato riportato, giustamente, con grande risalto, dagli organi di informazione, che hanno ricordato i premi ed i riconoscimenti internazionali, che sono stati assegnati a questo grande regista.
Trascurato, invece, è stato un evento, che ha dato lustro alla città di Palermo.
Negli anni ’60, mio padre Francesco Crispi propose l’assegnazione di un premio teatrale biennale, intitolato a Luigi Pirandello.
Questa proposta fu accolta da Ferdinando Stagno D’Alcontres Presidente della Cassa di Risparmio V.E. per le Province Siciliane.
Nel 1971, nell’ambito di questa iniziativa, venne istituito il Premio Internazionale Luigi Pirandello che aveva il compito di assegnare una Targa d’oro, con l’immagine di Luigi Piarandello, opera dell’artista Emilio Greco, a personalità, che si fossero distinte nel mondo del cinema e del teatro.
La 1^ Targa internazionale nel 1971 fu assegnata a Ingmar Bergman, che fu ospite della Cassa di Risparmio V.E. per le Province Siciliane a Villa Igea e ricevette dalle mani del Presidente Stagno D’Alcontres questo riconoscimento in una cerimonia, molto bella, che si svolse al Teatro Biondo.
L’evento fu un momento di grande orgoglio per la città che, una volta tanto, soprattutto in quegli anni, non era posta all’attenzione, nazionale ed internazionale come luogo in cui accadevano solo fatti di cronaca tristi e luttuosi, ma come città capace di esprimere alti livelli culturali.
Sarebbe, quindi, importante, nel ricordo di Bergman, ma anche per sottolineare i fatti positivi che siamo capaci di esprimere, che si ricordasse la targa d’oro assegnata a questo grande regista. (Salvatore Crispi)

venerdì 20 marzo 2009

Sul cognome Crispi

Mio padre soleva dirmi che noi Crispi eravamo pochissimi: anzi, per come me lo diceva (e consideriamo che le sue parole avevano certamente un impatto suggestivo sulla mia fantasia di bimbo) mi lasciava intendere che noi eravamo pressocchè gli unici a portare il cognome dell'illustre statista (con il quale - come spiegherò meglio in seguito - siamo anche imparentati).
Quando ero piccolo la cosa mi riempiva d'orgoglio ed era per me motivo di vanto.
Del resto, in questo non facevo che seguire l'attitudine di mio padre che, nel suo stile taciturno, era profondamente orgoglioso della tradizione di famiglia e sentiva profondamente l'onore di portare non solo lo stesso cognome ma anche l'identico nome di Francesco Crispi, patriota mazziniano prima e poi Primo ministro in uno dei primi governi dell'Italia unita.
Poi, nel 1994, venne fuori il nome di Michelangelo Crispi, catanese, che a Indianapolis nel 1994 vinse l'oro nei Campionati del Mondo Pesi leggeri di canottaggio in doppio e che replicò nuovamente nel 1999, nella stessa specialità).
Subii un piccolo grande shock cognitivo. Grande fu la mia delusione nel rendermi conto che crollava così un mito che, in qualche misura emulando mio padre, avevo costruito dentro di me a proposito della nostra presunta unicità.
Quel certo è che noi (questo nostro specifico, io e mio fratello, i miei cugini e la sorella di mia padre) siamo tra i pochi, in Italia, ad essere imparentati con lo statista: l'altro ramo della famiglia a vantare quest'ascendenza è quello dei Crispi Chiarenza che si collega direttamente con un nipote di Francesco Crispi.
Altri Crispi, imparentati con lo statista, vivono in America latina, dove il figlio naturale di Francesco Crispi si trasferì a vivere, spinto dal padre imbarazzato per la sua condotta disdicevole, al tempo dello scandalo della Banca d'Italia, di cui tra l'altro racconta in forma narrativa Sebastiano Vassalli nel suo romanzo "Il cigno" (per leggere la recensione a suo tempo pubblicata su "L'indice" clicca qui).
In ogni caso i "Crispi" in Italia sono davvero pochini: qualche centinaio appena, sparsi in piccoli nuclei in quasi tutto il territorio nazionale, ad eccezione - sembrerebbe - della Puglia e di poche altre regioni.
Rimane tuttavia certo il fatto che la mia famiglia sia di origine albanese e che discenda da quel nucleo di Albanesi, migranti (così si direbbe oggi) che arrivarono in Italia per sfuggire alla'avanzata dell'impero ottomano, diffondendosi prima nell'Italia meridionale (versante adriatico e ionico) e poi in talune zone della Sicilia, dove dettero vita ad alcuni paesi di "etnia" pura che vennero edificati ex-movo (come, ad esempio, Piana degli Albanesi) e ad altri a composizione mista (come, appunto, era ed è Palazzo Adriano).
Ma di questo racconterò più nel dettaglio in un successivo post.
Per quanto riguarda il significato del cognome, sempre mio padre solleva dirmi - probabilmente - sulla base di un sapere familiare tramandato, ma non suffragato da concrete basi linguistiche, che "crispi" in Albanese significasse "capo di casa".
Su questo aspetto vorrei fare una richiesta approfondita: ma su questo campo internet è avaro di informazioni perchè quasi tutte le indagini sull'origini dei cognomi sono accessibili dietro pagamento.
Ma per sciogliere questo dubbio effettuerò, prima o poi, una ricerca in Biblioteca o nel "Dizionario dei cognomi italiani".

mercoledì 18 marzo 2009

Gli anni del dopoguerra


Mia madre racconta che mio padre tornò dalla prigionia magrissimo, pelle ed ossa.
Arrivò a Palermo, via mare, forse da Napoli, soltanto alla fine del dicembre 1945.
Era stato tenuto in un campo di prigionia dei Francesi, in Algeria, al limitare del deserto, in condizioni ben più dure rispetto a quelle che toccarono, per esempio, ai soldati italiani caduti prigionieri degli Inglesi.
In quei primi giorni di viita assieme dopo che i miei genitori si erano ricongiunti, mio padre aveva sempre desiderio di mangiare dolci e presto ritornò ad essere quello di prima.
Mia madre lo assecondava più che poteva.
Ogni pomeriggio si recavano in una rinomata pasticceria di Trapani, città in cui rimasero a vivere per qualche tempo.
Infatti, alla fine della guerra, mia madre aveva ripreso ad insegnare a Trapani e la signora Sergio, che la ospitava, aiutò mio padre a trovare un impiego presso l’ufficio della “Postbellica”: presso ogni Prefettura d’Italia, infatti, era stato attivato un ufficio di questo tipo per provvedere alle necessità di tutti coloro che, a causa della guerra, avevano subito dei danni.
Ritornò indietro con delle abitudini di cui alcune le conservò a lungo.
In prigionia, benché da ufficiale avesse il compito di tenere alto il morale della truppa (cui, assieme agli altri suoi pari grado, teneva corsi di storia e di altre materie: ed era tornato con una serie di quaderni fitti di appunti che gli servivano da traccia per le sue lezioni ai soldati, dei veri e propri strumenti di lavoro, costruiti a memoria, avvalendosi della sua cultura), in considerazione delle condizioni spartane di vita, aveva preso la consuetudine di sputare per terra e, senza accorgersene, continuava a farlo, di tanto in tanto, anche in casa: per sopperire a tale inconveniente, venne ripristinata nell'uso un'antica sputacchiera di porcellana di famiglia che, in tempi antichi, in tutte le case era un oggetto consuetudinario.
L'altra abitudine che mantenne sempre era quella di scaldarsi l'acqua per la barba in un vecchio pentolino di alluminio. L'acqua per questo scopo doveva essere bollente: ed era lì, in quel pentolino, che intingeva il suo rasoio (una comune "zappetta" gillette). Q
uesto piccolo rito mattutino era una necessità assoluta, benché avessimo l'acqua calda corrente dal rubinetto.
Anche questo oggetto è conservato nei recessi degli armadi della cucina: l’ho scoperto proprio qualche tempo fa.
Dalla prigionia mio padre riportò indietro alcuni oggetti che teneva sempre in mostra poggiati sulla sua scrivania: una forchetta ed un cucchiaio di alluminio o di qualche altro metallo di scarso valore, nerastri per l’ossidazione.
Erano le sue posate personali, quelle con cui mangiava da prigioniero.
Poi, riportò indietro quei quaderni di appunti, di cui accennavo prima, e alcuni disegni a pastello realizzati da un suo compagno di prigionia che raffiguravano varie vedute del campo, tavole raccolte in un album realizzato con una legatura artigianale ed intritolato "Barbelet" (ovvero, Filo spinato) oltre ad un suo ritratto di una serietà triste.
Ma anche una vecchia Bibbia, in Francese, rilegata in tela verde consunta e macchiata, che gli era stata data dal personale della Croce Rossa in visita al campo.
E anche questa Bibbia la teneva nel suo studio.


Del periodo della prigionia usava raccontarmi due episodi.
C'era molta fame e i Francesi trattavano male i prigionieri italiani. Non perdonavano loro l'attacco proditorio sferrato da Mussolini proprio quando la guerra d'invasione dei Tedeschi era stata vinta. Bene, capitò un'invasione di cavallette: mio padre mi raccontò che ne catturarono grandi quantità e se ne nutrirono, cuocendole alla meno peggio. "Che sapore avevano? - gli chiesi io, meravigliato. "Mah! non erano male - rispose mio padre - avevano il sapore dei gamberi fritti, più che altro". Fu un’autentica festa, mi raccontava, questo pasto extra, autenticamente piovuto dal cielo.


L'altra cosa che mi raccontò era il rito della raccolta di briciole di pane raffermo, avanzate dal desco dove giornalmente si sedeva a consumare il magro pasto distribuito dai Francesi. A turno, per una settimana, uno delle tavolata raccoglieva quelle briciole e le conservava come un bene prezioso, per arricchire - al settimo giorno - la zuppa da anacoreti che veniva servita loro.
La fame patita in quei giorni aveva lasciato il segno: mio padre era abilissimo a spolpare i più minuti ossicini del pollo arrosto che di tanto in tanto mangiavamo, sino a lasciarli incredibilmente puliti e, nello stesso modo, divorava minuziosamente calli e grassetti della fetta di carne che io, con sdegno, lasciavo da parte.

martedì 17 marzo 2009

A Palazzo Adriano, le radici di mio padre e della famiglia Crispi


La famiglia Crispi è originaria di palazzo Adriano: un piccolo paese chiuso tra i monti che circondano la valle del Sosio, irrigua e verde di coltivazioni tanto quanto sono brulli i monti attorno.
Per arrivare a Palazzo si passa ai piedi di Prizzi, arroccata tutta sbilenca su di un'altura, quasi fosse in procinto di scivolare giù.
Un tempo la strada che conduceva a Palazzo Adriano era una dead-end road.
Non vi erano continuazioni verso altre mete e per arrivarci si seguiva la strada provinciale che arrivava a Corleone.

Frugando nella mia memoria di bambino, ricordo che trovavo sorprendente il momento in cui ci immettevamo in una valle che risultava tanto più verdeggiante dopo aver attraversato un paesaggio così brullo e solitario: era quasi come ritrovare un'oasi dopo il deserto, dopo un viaggio lento e avventuroso, come erano allora gli spostamenti in auto lungo strade per lo più strette e tortuose.
Quelle erano proprio delle terre sperdute nel cuore profondo della Sicilia, un pezzetto di territorio di confine tra la provincia di Agrigento e quella di Palermo.


Mio padre sentiva con forza e orgoglio il legame con la terra d'origine della sua famiglia.
Lì, c'era la casa avita, collocata proprio lungo il corso (oggi, via Francesco Crispi) che si diparte dalla piazza dove le due chiese si fronteggiano orgogliose, ma non litigiose, quella di rito greco-ortodosso e quella cattolica.
Era proprio la casa sulla cui facciata è stata allocata in tempi recenti una lapide marmorea che ricorda come Francesco Crispi (lo statista) abbia trascorso qui gli anni formativi della sua giovinezza.
Una semplice casa ad un piano, conil fronte piuttosto stretto, ma sviluppata in profondità.
Dietro di essa, la campagna e, in particolare, un orto sempre di proprietà dei Crispi cintato da alte mura.
Malgrado la sua semplicità, era pur sempre una casa padronale, dotata di porta carraia e di patio interno dove si affacciavano le porte di diversi magazzini adibiti alla conservazione di derrate agricole, come le giare dell'olio e le granaglie, e di utensili.
Una stretta scala consentiva di salire al piano nobile.


Già, nel primo dopoguerra, gran parte di questa struttura era stata venduta, purtroppo, ad cittadino "gentile" di palazzo Adriano (non ortodosso), tale Palumbo, compreso il piano terra.
All'uso dei nonni (il nonno Totò e la nonna Ia) che tornavano sempre lì a passare l'estate, assieme ai miei zii (lo zio Pippo che si sposò più tardi e alla zia Mariannù) rimaneva soltanto la parte posteriore del piano di sopra, comprendente un'ampio stanzone che serviva da sala da pranzo e salotto/soggiorno - e anche da stanza letto per quando ci andavamo con mio padre e mia mamma.
Non ricordo che in queste circostanze ci fosse anche mio fratello che negli anni dell'infanzia stava altrove per motivi di salute.
In queste occasioni dormivamo sui matterassi di paglia stesi sui tavolacci sostenuti dai classici "trispiti" di ferro battuto.
Ho dei vividi ricordi di questa casa.
Nonna Ia aveva ricavato la cucina all'interno di uno stanzino stretto e lungo (meno di un metro di lunghezza), il fornelletto a gas collocato contro la parete in fondo dove si apriiva una piccola finestrella ovale.
Eppure, malgrado le difficoltà logistiche - per quel che ricordo - cucinava sempre alla grande, autentiche leccornie: e da quel cucinino si spandevano per la casa sublimi odori di preparazioni buone e semplici.
Mio padre amava profondamentamente quei luoghi: evidentemente, anche se tutta la sua vita di studente e di adulto si era sviluppata nella grande città dove era pure nato, lì sentiva le sue radici, come pure era per lui forte e salda la consapevolezza del contatto identitario con l'importante genealogia della nostra famiglia, che non mancava mai di ricordarmi.


Andare a Palazzo, per lui, era modo per tornare alla sua infanzia e adolescenza, e ad intere estati trascorse lì.
Lì c'era "Peppineddu", un suo caro amico d'infanzia che era rimasto lì a vivere: a mio padre era caro intrattenersi a chiacchierare con lui ogni volta che scendeva in piazza.
Tante volte d'estate, anche se solo per pochi giorni di seguito, andavamo a Palazzo a trovare i nonni che lì passavano le loro estati sino a quando il nonno in una brutta caduta notturna non si spezzò il femore e, da allora, benchè clinicamente guarito, non volle più muoversi da casa.
Ricordo che, appena arrivati, mio padre andava subito a comprare il pane di paese cotto a legna, ancora fragrante, e allestiva delle grandi merende a base di pane e olio, insegnandomi così il gusto delle cose semplici.
Ma ho anche ricordi di tanti giorni consecutivi trascorsi lì in vacanza assieme a Zia Mariannù, ricordi di passeggiate sino alla sponda del fiume e oltre, le escursioni sino ad una chiesetta - vera oasi di pace - su di un piccolo colle dall'altro lato del fiume da cui si vedeva distendersi il paese con le sue case dominate dalla mole più massicia delle diverse chiese, come anche il passìo pomeridiano nella piazza rivestita di ciottoli antichi, con mia zia che mi teneva in mano, io con indosso i vestitini buoni.
Una volta, lavato e rivestito di tutto punto, già pronto per l'immancabile uscita pomeridiana, muovendomi goffamente, caddi nella bagnina dove la zia aveva appena finito di farmi il bagno, ancora piena d'acqua e mi inzuppai tutto. La zia, pazientemente, dovette aciugarmi e rivestirmi daccapo.
Il mio momento preferito era nelle sere quiete e silenziose (non esisteva la televisione), quando la zia mi leggeva interi capitoli di Pinocchio, da una vecchia edizione di famiglia, che mi restò cara: in anni più recenti la feci rilegare, ma poi il libro purtroppo fu irreversibilmente danneggiato da un allagamento domestico.
Un'altra volta, in occasione di una delle nostre permanenze lì, mio padre mi portò a camminare lungo la massicciata della vecchia ferrovia a scartamento ridotto, ormai dismessa, e mi raccontava di quando, essendo il trenino ancora attivo, lui con la sua famiglia viaggiava con questo mezzo per recarsi a Palazzo e arrivavano tutti sporchi di fuliggine. Questa escursione fu affascinante e avventurosa, anche perchè - ad un certo punto - ci trovammo di fronte ad una galleria e la percorremmo tutta, malgrado il buio pesto ed il sentore ancora persistente di carbone bruciato e fuliggine, sino ad uscire alla luce all'altra estremità.
In un'altra occasione, mentre viaggiavamo in macchina lungo la strada provinciale che conduceva in paese, mio padre venne fermato da uno per dare soccorso ad un contadino che era stato appena morso da un mulo. Lo trasportammo in auto sino al più vicino presidio medico. Ricordo il sangue che sgorgava copioso dalla ferita, imbrattando i sedili della macchina magrado alcuni giornali stesi sopra.
La casa di Palazzo Adriano poi venne venduta, mio nonno ancora in vita.
Fu una decisione presa a sorpresa e unilateralmente da altri, senza nemmeno consultare preventivamente mio padre, che pure era il primogenito, in parte anche come esito delle pressioni che esercitavano alcuni parenti italo-americani cui spettava una parte della casa e che volevano realizzare un profitto, per quanto magro.
Se mio padre fosse stato informato, avrebbe sicuramente fatto qualcosa per impedire questa vendita ad estranei: magari avrebbe cercato di acquistarla lui stesso. Fu una autentica perdita affettiva per lui, un cruccio che gli rimase.
Non ritornammo più a Palazzo. Non ci furono più gite lì.
Anni dopo la morte di mio padre, mio zio Luigi, prese in affitto una piccola casa a Palazzo e lì trascorreva molti mesi all'anno immerso nelle sue letture.
A Palazzo sono ritornato di recente, con molta emozione.

mercoledì 25 febbraio 2009

Biografia 1 - Le origini

Francesco Crispi è nato a Palermo il 1° febbraio del 1918 da Salvatore e da Erminia Orestano.
Secondogenito, presto divenne il primo della fratria a causa della morte precoce del fratello Andrea.
A distanza di alcuni anni l'uno dall'altro arrivarono gli altri fratelli: Giuseppe, Luigi, Maria Annunziata.
Salvatore Crispi (il nonno "Totò) era un uomo grande ed imponente. Un bell'uomo dalla carnagione chiara e dagli occhi azurri. In gioventù aveva vissuto - secondo quello che mi raccontava mio padre - come un "giovin signore". Il padre (Francesco), infatti, essendo - pur non aristocratico - un ricco rappresentante della borghesia terriera del tempo, possedeva una tenuta agricola che gli dava delle rendite sufficienti per condurre una vita agiata e per consentirla ai suoi figli.
ll nonno, da giovane, possedeva un proprio calesse personale (che sarebbe come possedere una piccola smart o spiderina, oggi) e faceva la bella vita.

Poi il padre, rapidamente, perse tutto al gioco e trascinò la famiglia sull'orlo del collasso economico.
Il nonno, da allora in poi, dovette arrangiarsi per sbarcare il lunario.
Mise da parte il calessino e la vita di svaghi, e riuscì ad entrare nelle Ferrovie dello Stato, dove poi lavorò sino al pensionamento.

Nel 1960 , nella ricorrenza del centenario dell'Unità d'Italia, venne insignito dall'allora Presidente della Repubblica, Leone, dell'onorificenza di "Cavaliere del lavoro".
Da solo, il nonno - con il suo duro lavoro -sostentò l'intera famiglia, dato che la nonna - come si usava a quel tempo - non lavorava ma si occupava soltanto della conduzione domestica e dell'educazione dei figli.
Sono queste le cose che più volte mio padre mi ha raccontato, quando ero piccolo: non credo che sia mai sceso in maggiori detagli, ma d'altronde, allora ero troppo piccolo per poterlo fare.
Mi raccontò anche che suo nonno (pensò che si riferisse al padre di suo padre) era un gran mangiatore e che morì d'indigestione, per aver ingurgitato golosamente un intero cesto di fichi appena colti che gli avevano portato dalla campagna appena colti.
Invece, la nonna Erminia (che tutti chiamavamo nonna "Ia") apparteneva alla famiglia Orestano, anch'essa numerosa e ricca. Il fratello Fausto, medico-chirurgo, infatti aveva fondato una Casa di Cura (la "Clinica Orestano"), un'altro fratello Francesco si era dedicato, invece, agli studi di filosofia giuridica e si era trasferito in Germania per perfezionare la sua preparazione, come i filosofi solevano a fare a quei tempi.
Dalla Germania (Lipsia e dintorni), Francesco inviava di continiuo alla nonna cartoline illustrate dove, in ogni spazio bianco disponibile, con scrittura minuta e fittissima, raccontava all'amata sorella ciò che aveva fatto e visto.
Completava il quadro la sorella Susanna, volitiva e decisa che morì poi quasi centenaria.
Fausto (medico-chirurgo e fondatore della Clinica Orestano), essendo molto aperto culturalmente alle mode del tempo (erano i primi del Novencento ed era quello il periodo della "scoperta" della montagna e dell'avvio delle "vacanze"), con il supporto di Susanna estremamente intraprendente, importò questi nuovi fermenti in Sicilia e, alla guida di un manipolo di ferventi seguaci, fondò il Club Alpino Siciliano (CAS), individuando il primo rifugio alpino nelle Madonie, sopra Collesano (il primo nucleo del rifugio di Piano Zucchi).
Ma questa è tutta un altra storia, anche se - per quanto concerne mio padre - la traiettoria del CAS si incrocierà successivamente con la sua vita, ingenerando in lui una grande e sviscerata passione per il walking nei grandi paesaggi alpini e dei nostri monti.

giovedì 19 febbraio 2009

In morte del padre di un mio amico podista

Questa, rispetto al tema che mi sono dato è una digressione - o forse no.
Mi viene spontaneo, comunque inserire questo materiale.
Ieri o l'altro ieri, adesso non so bene, è morto dopo una lunga ed invalidante malattia, il padre di un mio amico podista, runner sulle ultradistanze ed anche armato del pallino della scrittura che lo porta a tradurre sulla carta le sue sensazioni, emozioni ed esperienze durante la corsa.
Pochi giorni prima mi aveva inviato un suo breve scritto, intensamente autobiografico, nel quale raccontava il peso emozionale dell'asssitenza al padre, malato terminale di una malattia che non perdona, ormai in uno stato di evoluzione avanzato.
Ieri, mi ha scritto per comunicarmi del trapasso di suo padre.

Caro Maurizio, è con il palato asciutto che ti comunico il decesso di mio padre.
Perdona questo messaggio portatore di tristezza, ma dal momento in cui ti avevo trasmesso un piccolo manoscritto realizzato nei giorni di sofferenza, quando le cure non avevano più senso di esistere, mi è parso giusto farti partecipe del mio dolore.
Nonostante i dissidi e le incomprensioni, il tempo ed il buon senso hanno riunito i nostri cuori più di quanto non fosse sperabile.
Mio padre è stato un grande uomo di sport e si porta dietro tutto il bene e l'amore che ha regalato alla sua passione: il ciclismo.
Io lo ricorderò per questo e per altro, ma soprattutto porterò sempre una parte della sua anima sulle strade del mondo.
Su quelle in cui i miei passi si fonderanno con il suo respiro.
A presto.
A*****

Io gli ho
subito inviato una mail, tentando di esprimere la mia solidarietà e la mia empatia.
In simili momenti, per cercare di capire ed essere vicini ad altri, possiamo solo fare riferimento a ciò che ci è già noto per vicissitudini personali e, quindi, non ho potuto fare a meno di ripensare a mio padre e alla sua dipartita.
La mia risposta:

Carissimo A*****,
in questi momenti ci sono ben che poche parole che si possano pronunciare.
Valgono soltanto l'empatia, la capacità di immedesimazione nel dolore di chi - come te - ha subito il dolore della dipartita di una persona cara, come soltanto un padre o una madre possono esserli.
Spero soltanto che tuo padre che, sicuramente ha seguito le tue imprese sportive, abbia potuto essere consapevole del compimento di questa tua altra impresa (la scrittura e la pubblicazione a stampa del tuo bel libro) e che l'abbia potuto tenere tra le mani, prima di andar via.
Pensa - per consolarti - che tuo padre ti ha visto arrivare sino agli anni della adultità, della maturità, ha potuto vedere che la tua vita prendeva forma e che tu compivi le tue scelte e, infine, cosa non da poco, ha potuto seguire - lui stesso sportivo, a quanto mi dici - l'evolversi della tua passione - intima, introversa e riflessiva - per il podismo. Pensa che, certamente, per tutte queste cose, egli non ha potuto che essere contento di avere un figlio che gli garantiva in questo modo una sua prosecuzione in questo mondo.
Il vero lutto, il vero dolore, nella perdita di una persona cara è nel fatto che si spegne quella parte di noi che viveva nella sua mente.Questa, anche nella mia esperienza personale, è la cosa più dura con cui confrontarsi.
Mentre chi non è più potrà vivere, per sempre, nel nostro ricordo.
Ti sono vicino in questo grande dolore.

Poi, in un secondo momento gli ho inviato una seconda mail, partendo da alcune considerazioni sul suo racconto così intensamente autobiografico. Anche qui, in questa seconda lettera, non ho potuto fare a meno di parlare di mio padre e della sua morte.

Quello che hai scritto in "URLO" è intenso, di un'intensità che fa davvero male. E' qualcosa che posso comprendere perché da medico sono stato vicino al morire, qualche volta, quando lavoravo in una divisione di neurologia.
Come uomo, invece, questa esperienza straziante del lento morire di una persona che mi è cara, non l'ho ancora fatta, per fortuna.
Mia madre, anzianissima, è ancora con me.
Mio padre è morto quando avevo 22 anni, ma non l'ho mai visto morto. E' morto in un disastro aereo e io l'ho visto rientrare a casa già chiuso dentro una bara, forse il suo corpo - lì dentro, invisibile ai miei occhi - era straziato e pietosamente ricomposto.
Ma il doverlo riconescere mi è stato risparmiato.
Mio padre è morto, essendo in perfetta salute (54 anni) con la prospettiva ancora di una lunga vita davanti a sé. E' morto lavorando.
Era giornalista e tornava a casa da uno dei suoi viaggi di lavoro (prendeva l'aereo come se fosse un autobus o un taxi).
Quando si parlava della morte, diceva che voleva morire rapidamente, quando ciò sarebbe dovuto capitare.
Lui, magari, pensava che il suo veloce morire sarebbe stato determinato da un infarto, o magari da un altro tipo di morte fulminante. Ma E sono certo che non pensava certamente ad una morte lenta.
Non è stato un infarto, ma il suo trapasso per lui è stato egualmente fulmineo, anche se - per frazioni di secondo - avrà avuto forse il tempo di rendersi conto di ciò che stava accadendo e di prepararsi. Anche se, per questa evenienza, non si è mai pronti.
E' stato fortunato a morire così?
Non so.
Non posso rispondere.
Certo, io non mi sono sentito fortunato per il modo della sua morte.
Mi sono ritrovato senza l'essenziale confronto con una figura paterna proprio negli anni cruciali, quelli in cui - al prezzo di un conflitto smisurato con lui - stavo costruendo una mia "vera" e sofferta indipendenza.
E, a causa della sua improvvisa scomparsa che ho considerato alla stessa stregua di un tradimento, mi sono sentito defraudato.
Dal suo punto di vista, invece, se non fosse morto allora in questo modo repentino, magari il trapasso sarebbe avvenuto in una maniera lenta e dolorosa.
Io sarei stato contento per averlo avuto più a lungo con me, ma lui no, avrebbe detestato la sorte che un destino malevolo gli imponeva.
Certo è comunque che la medicina contemporanea più che "curare" infligge a volte delle sofferenze intollerabili e condanna a forme di vita "sulla soglia" che non sono più vita, perché non c'è più spazio per la gioia e la leggerezza, anche soltanto in piccole dosi. Se non si può più sorridere, se ogni giorno è un infinito calvario, qual'è il senso del sopravvivere per qualche giorno o qualche ora in più?

mercoledì 28 gennaio 2009

Il tempo passa e i ricordi sbiadiscono...

Oggi ho 59 anni: cinque anni più di mio padre quando scomparve.
Mio padre adesso è più giovane di me, per come io lo ricordo.
Lui è rimasto fisato a quell'età: i suoi 54 anni.
Ed è una cosa ben strana, adesso, pensarlo più giovane di me; per lui, nella vita che egli vive nei miei ricordi, il tempo si è fermato, segnando il passo; per me, invece, ha continuato a avere il suo corso mutevole (a volte, soggettivamente più lento, forse), portandomi avanti inesorabilmente.
Ma se mio padre è "fermo" alla sua età ormai per me "giovanile" di 54, i miei ricordi di lui subiscono un continuo rimaneggiamento e, altrettanto ineluttabilmente, sbiadiscono e si confondono. Tante cose, mai fissate sulla carta, mai scritte, ma soltanto vissute nel ricordo (e qualche volta raccontate a voce alta) si perdono: si mutano in pezzi e frammenti che a volte occorre rimontare assieme come le parti di un puzzle per dare loro un senso. Di tante altre di cui prima ero sicuro, rimangono frammenti un po' sbiaditi dei quali non ho nessuna certezza.Anche gli anni della mia analisi personale siifanno sempre più lontani e quell'intero corpus di storie narrate allo psicoanalista che avevano come fulcroomio padre si vanno sbiadendo.
Da dove nasce questo commento?
Forse dal fatto che, cercando di snocciolare le date delle principali ricorrenze dei miei genitori, mi sia venuto un dubbio consistente sulla effettiva data di nascita di mia padre.
L'anno: il 1918, questo lo so per certo.
Giorno e mese: qui le carte si confondono.
Nel post precedente ho scritto: 4 ottobre 1918, ma adesso sono incerto.
Il 4 ottobre er la ricorrenza che accomunava il compleanno di mio fratello Salvatore, l'onomastico di mio padre, ma anche l'anniversario del matrimonio dei genitori.
Non è possibile, ho cominciato ad almnanaccare dentro di me, che il 4 ottobre fosse anche il giorno in cui ricorreva il suo compleanno!
Se così fosse stato, avremmo dovuto fare per quel giorno dei festeggiamenti davvero sontuosi: ma non era nelle nostre abitudini nemmeno festeggiare con clamore una singola ricorrenza.
E allora, escludendo il 4 ottobre come data di nascita, cosa rimarrebbe?
Vuoto totale! Non riesco a pensare a nessuna data "papabile".
A fronte di questo vuoto di mente, penso che certamente potrò chiedere a mia madre qualche delucidazione e che lei sarà pronta a risolvere il mio dubbio, fornendomi una risposta. ma questo non mi piace.
Vorrei essere io a risolvere il problema.
Una cosa è sicura: ciò che era certo si fa incerto; ciò che era dominio del ricordo vissuto e posseduto, entra nella sfera del dubbio.
I ricordi si fanno evanescenti e vacillanti.
Ed allora, proprio per questo, devo sbrigarmi a fissare qui tutto quello che ricordo di mio padre.
 
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