martedì 17 marzo 2009

A Palazzo Adriano, le radici di mio padre e della famiglia Crispi


La famiglia Crispi è originaria di palazzo Adriano: un piccolo paese chiuso tra i monti che circondano la valle del Sosio, irrigua e verde di coltivazioni tanto quanto sono brulli i monti attorno.
Per arrivare a Palazzo si passa ai piedi di Prizzi, arroccata tutta sbilenca su di un'altura, quasi fosse in procinto di scivolare giù.
Un tempo la strada che conduceva a Palazzo Adriano era una dead-end road.
Non vi erano continuazioni verso altre mete e per arrivarci si seguiva la strada provinciale che arrivava a Corleone.

Frugando nella mia memoria di bambino, ricordo che trovavo sorprendente il momento in cui ci immettevamo in una valle che risultava tanto più verdeggiante dopo aver attraversato un paesaggio così brullo e solitario: era quasi come ritrovare un'oasi dopo il deserto, dopo un viaggio lento e avventuroso, come erano allora gli spostamenti in auto lungo strade per lo più strette e tortuose.
Quelle erano proprio delle terre sperdute nel cuore profondo della Sicilia, un pezzetto di territorio di confine tra la provincia di Agrigento e quella di Palermo.


Mio padre sentiva con forza e orgoglio il legame con la terra d'origine della sua famiglia.
Lì, c'era la casa avita, collocata proprio lungo il corso (oggi, via Francesco Crispi) che si diparte dalla piazza dove le due chiese si fronteggiano orgogliose, ma non litigiose, quella di rito greco-ortodosso e quella cattolica.
Era proprio la casa sulla cui facciata è stata allocata in tempi recenti una lapide marmorea che ricorda come Francesco Crispi (lo statista) abbia trascorso qui gli anni formativi della sua giovinezza.
Una semplice casa ad un piano, conil fronte piuttosto stretto, ma sviluppata in profondità.
Dietro di essa, la campagna e, in particolare, un orto sempre di proprietà dei Crispi cintato da alte mura.
Malgrado la sua semplicità, era pur sempre una casa padronale, dotata di porta carraia e di patio interno dove si affacciavano le porte di diversi magazzini adibiti alla conservazione di derrate agricole, come le giare dell'olio e le granaglie, e di utensili.
Una stretta scala consentiva di salire al piano nobile.


Già, nel primo dopoguerra, gran parte di questa struttura era stata venduta, purtroppo, ad cittadino "gentile" di palazzo Adriano (non ortodosso), tale Palumbo, compreso il piano terra.
All'uso dei nonni (il nonno Totò e la nonna Ia) che tornavano sempre lì a passare l'estate, assieme ai miei zii (lo zio Pippo che si sposò più tardi e alla zia Mariannù) rimaneva soltanto la parte posteriore del piano di sopra, comprendente un'ampio stanzone che serviva da sala da pranzo e salotto/soggiorno - e anche da stanza letto per quando ci andavamo con mio padre e mia mamma.
Non ricordo che in queste circostanze ci fosse anche mio fratello che negli anni dell'infanzia stava altrove per motivi di salute.
In queste occasioni dormivamo sui matterassi di paglia stesi sui tavolacci sostenuti dai classici "trispiti" di ferro battuto.
Ho dei vividi ricordi di questa casa.
Nonna Ia aveva ricavato la cucina all'interno di uno stanzino stretto e lungo (meno di un metro di lunghezza), il fornelletto a gas collocato contro la parete in fondo dove si apriiva una piccola finestrella ovale.
Eppure, malgrado le difficoltà logistiche - per quel che ricordo - cucinava sempre alla grande, autentiche leccornie: e da quel cucinino si spandevano per la casa sublimi odori di preparazioni buone e semplici.
Mio padre amava profondamentamente quei luoghi: evidentemente, anche se tutta la sua vita di studente e di adulto si era sviluppata nella grande città dove era pure nato, lì sentiva le sue radici, come pure era per lui forte e salda la consapevolezza del contatto identitario con l'importante genealogia della nostra famiglia, che non mancava mai di ricordarmi.


Andare a Palazzo, per lui, era modo per tornare alla sua infanzia e adolescenza, e ad intere estati trascorse lì.
Lì c'era "Peppineddu", un suo caro amico d'infanzia che era rimasto lì a vivere: a mio padre era caro intrattenersi a chiacchierare con lui ogni volta che scendeva in piazza.
Tante volte d'estate, anche se solo per pochi giorni di seguito, andavamo a Palazzo a trovare i nonni che lì passavano le loro estati sino a quando il nonno in una brutta caduta notturna non si spezzò il femore e, da allora, benchè clinicamente guarito, non volle più muoversi da casa.
Ricordo che, appena arrivati, mio padre andava subito a comprare il pane di paese cotto a legna, ancora fragrante, e allestiva delle grandi merende a base di pane e olio, insegnandomi così il gusto delle cose semplici.
Ma ho anche ricordi di tanti giorni consecutivi trascorsi lì in vacanza assieme a Zia Mariannù, ricordi di passeggiate sino alla sponda del fiume e oltre, le escursioni sino ad una chiesetta - vera oasi di pace - su di un piccolo colle dall'altro lato del fiume da cui si vedeva distendersi il paese con le sue case dominate dalla mole più massicia delle diverse chiese, come anche il passìo pomeridiano nella piazza rivestita di ciottoli antichi, con mia zia che mi teneva in mano, io con indosso i vestitini buoni.
Una volta, lavato e rivestito di tutto punto, già pronto per l'immancabile uscita pomeridiana, muovendomi goffamente, caddi nella bagnina dove la zia aveva appena finito di farmi il bagno, ancora piena d'acqua e mi inzuppai tutto. La zia, pazientemente, dovette aciugarmi e rivestirmi daccapo.
Il mio momento preferito era nelle sere quiete e silenziose (non esisteva la televisione), quando la zia mi leggeva interi capitoli di Pinocchio, da una vecchia edizione di famiglia, che mi restò cara: in anni più recenti la feci rilegare, ma poi il libro purtroppo fu irreversibilmente danneggiato da un allagamento domestico.
Un'altra volta, in occasione di una delle nostre permanenze lì, mio padre mi portò a camminare lungo la massicciata della vecchia ferrovia a scartamento ridotto, ormai dismessa, e mi raccontava di quando, essendo il trenino ancora attivo, lui con la sua famiglia viaggiava con questo mezzo per recarsi a Palazzo e arrivavano tutti sporchi di fuliggine. Questa escursione fu affascinante e avventurosa, anche perchè - ad un certo punto - ci trovammo di fronte ad una galleria e la percorremmo tutta, malgrado il buio pesto ed il sentore ancora persistente di carbone bruciato e fuliggine, sino ad uscire alla luce all'altra estremità.
In un'altra occasione, mentre viaggiavamo in macchina lungo la strada provinciale che conduceva in paese, mio padre venne fermato da uno per dare soccorso ad un contadino che era stato appena morso da un mulo. Lo trasportammo in auto sino al più vicino presidio medico. Ricordo il sangue che sgorgava copioso dalla ferita, imbrattando i sedili della macchina magrado alcuni giornali stesi sopra.
La casa di Palazzo Adriano poi venne venduta, mio nonno ancora in vita.
Fu una decisione presa a sorpresa e unilateralmente da altri, senza nemmeno consultare preventivamente mio padre, che pure era il primogenito, in parte anche come esito delle pressioni che esercitavano alcuni parenti italo-americani cui spettava una parte della casa e che volevano realizzare un profitto, per quanto magro.
Se mio padre fosse stato informato, avrebbe sicuramente fatto qualcosa per impedire questa vendita ad estranei: magari avrebbe cercato di acquistarla lui stesso. Fu una autentica perdita affettiva per lui, un cruccio che gli rimase.
Non ritornammo più a Palazzo. Non ci furono più gite lì.
Anni dopo la morte di mio padre, mio zio Luigi, prese in affitto una piccola casa a Palazzo e lì trascorreva molti mesi all'anno immerso nelle sue letture.
A Palazzo sono ritornato di recente, con molta emozione.

1 commento:

  1. Pezzo molto bello è che mi ha ricordato le mie vacanze passate a Palazzo Adriano e l'amore per i miei genitori per quella casa in paese usata per le vacanze d'estate e tenuta. Mi ci ritrovo moltissimo

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