mercoledì 18 marzo 2009

Gli anni del dopoguerra


Mia madre racconta che mio padre tornò dalla prigionia magrissimo, pelle ed ossa.
Arrivò a Palermo, via mare, forse da Napoli, soltanto alla fine del dicembre 1945.
Era stato tenuto in un campo di prigionia dei Francesi, in Algeria, al limitare del deserto, in condizioni ben più dure rispetto a quelle che toccarono, per esempio, ai soldati italiani caduti prigionieri degli Inglesi.
In quei primi giorni di viita assieme dopo che i miei genitori si erano ricongiunti, mio padre aveva sempre desiderio di mangiare dolci e presto ritornò ad essere quello di prima.
Mia madre lo assecondava più che poteva.
Ogni pomeriggio si recavano in una rinomata pasticceria di Trapani, città in cui rimasero a vivere per qualche tempo.
Infatti, alla fine della guerra, mia madre aveva ripreso ad insegnare a Trapani e la signora Sergio, che la ospitava, aiutò mio padre a trovare un impiego presso l’ufficio della “Postbellica”: presso ogni Prefettura d’Italia, infatti, era stato attivato un ufficio di questo tipo per provvedere alle necessità di tutti coloro che, a causa della guerra, avevano subito dei danni.
Ritornò indietro con delle abitudini di cui alcune le conservò a lungo.
In prigionia, benché da ufficiale avesse il compito di tenere alto il morale della truppa (cui, assieme agli altri suoi pari grado, teneva corsi di storia e di altre materie: ed era tornato con una serie di quaderni fitti di appunti che gli servivano da traccia per le sue lezioni ai soldati, dei veri e propri strumenti di lavoro, costruiti a memoria, avvalendosi della sua cultura), in considerazione delle condizioni spartane di vita, aveva preso la consuetudine di sputare per terra e, senza accorgersene, continuava a farlo, di tanto in tanto, anche in casa: per sopperire a tale inconveniente, venne ripristinata nell'uso un'antica sputacchiera di porcellana di famiglia che, in tempi antichi, in tutte le case era un oggetto consuetudinario.
L'altra abitudine che mantenne sempre era quella di scaldarsi l'acqua per la barba in un vecchio pentolino di alluminio. L'acqua per questo scopo doveva essere bollente: ed era lì, in quel pentolino, che intingeva il suo rasoio (una comune "zappetta" gillette). Q
uesto piccolo rito mattutino era una necessità assoluta, benché avessimo l'acqua calda corrente dal rubinetto.
Anche questo oggetto è conservato nei recessi degli armadi della cucina: l’ho scoperto proprio qualche tempo fa.
Dalla prigionia mio padre riportò indietro alcuni oggetti che teneva sempre in mostra poggiati sulla sua scrivania: una forchetta ed un cucchiaio di alluminio o di qualche altro metallo di scarso valore, nerastri per l’ossidazione.
Erano le sue posate personali, quelle con cui mangiava da prigioniero.
Poi, riportò indietro quei quaderni di appunti, di cui accennavo prima, e alcuni disegni a pastello realizzati da un suo compagno di prigionia che raffiguravano varie vedute del campo, tavole raccolte in un album realizzato con una legatura artigianale ed intritolato "Barbelet" (ovvero, Filo spinato) oltre ad un suo ritratto di una serietà triste.
Ma anche una vecchia Bibbia, in Francese, rilegata in tela verde consunta e macchiata, che gli era stata data dal personale della Croce Rossa in visita al campo.
E anche questa Bibbia la teneva nel suo studio.


Del periodo della prigionia usava raccontarmi due episodi.
C'era molta fame e i Francesi trattavano male i prigionieri italiani. Non perdonavano loro l'attacco proditorio sferrato da Mussolini proprio quando la guerra d'invasione dei Tedeschi era stata vinta. Bene, capitò un'invasione di cavallette: mio padre mi raccontò che ne catturarono grandi quantità e se ne nutrirono, cuocendole alla meno peggio. "Che sapore avevano? - gli chiesi io, meravigliato. "Mah! non erano male - rispose mio padre - avevano il sapore dei gamberi fritti, più che altro". Fu un’autentica festa, mi raccontava, questo pasto extra, autenticamente piovuto dal cielo.


L'altra cosa che mi raccontò era il rito della raccolta di briciole di pane raffermo, avanzate dal desco dove giornalmente si sedeva a consumare il magro pasto distribuito dai Francesi. A turno, per una settimana, uno delle tavolata raccoglieva quelle briciole e le conservava come un bene prezioso, per arricchire - al settimo giorno - la zuppa da anacoreti che veniva servita loro.
La fame patita in quei giorni aveva lasciato il segno: mio padre era abilissimo a spolpare i più minuti ossicini del pollo arrosto che di tanto in tanto mangiavamo, sino a lasciarli incredibilmente puliti e, nello stesso modo, divorava minuziosamente calli e grassetti della fetta di carne che io, con sdegno, lasciavo da parte.

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