domenica 12 dicembre 2010

Mio padre e la bicicletta



Chiunque vada in bicicletta ha dei vividi ricordi della sua prima bicicletta, non c'è dubbio.

E, si badi bene, non deve necessariamente della prima bicicletta dove eventualmente si sono apprresi i rudimenti dell'andare in bici, prima con le rotelline e poi finalmente senza (e la bici-scuola, eventualmente, presa in affitto o in prestito), ma della prima bicicletta che è stata "nostra" nel senso più totale del termine, quella che per la prima volta ci ha fatto sentire un po' più adulti e più autonomi, quella con cui abbiamo finalmente cominciato ad "osare" e a tentare delle imprese un po' più ardimentose (commisurate con l'età, ovviamente: e quindi anche un giro dell'isolato un po' più lungo oppure l'attraversamento di una strada asfaltata con traffico veicolare).

La prima bicicletta, quella già per più grandi, una 24 o una 26 (prima, ai bambinetti piccini non si regalava una bicicletta come si usa fare adesso, perchè sarebbe stato uno spreco inutile) era una cosa importante, un po' il riconoscimento dell'aver raggiunta un'adultità ai suoi albori.

La mia prima bici fu una 26 (marca ignota), che ebbi come strenna natalizia per i dipendenti dell'Assemblea Regionale Siciliana, quando avevo 12 anni.

Mio padre con questa mi insegnò ad andare sulle strade asfaltate con una certa sicurezza: con l'occasione, ne comprò una anche lui per sé (una Legnano, ricordo) e comincaimmo a fare lunghe passeggiate assieme, dopo che mi fui impratichitito a sufficienza in una breve strada dietro casa, poco frequentata dalle auto.

Io, senza cambio, arrancavo dietro di lui.

Mio padre, però, era un severo maiestro: non si ammorbidiva affatto, se vedeva che faticavo a stargli appresso.

Preso dall'ebbrezza della velocità arrancava e io dietro di lui.

La bicicletta lo faceva ringiovanire e lo rimandava indietro nel tempo, quando - prima della guerra - aveva avuto una sua bicicletta che adoperava come mezzo di locomozione per spostarsi anche su lunghe distanze.

Mi raccontava di una volta che era sceso a rotta di colla da Altofonte, tenendo un sacchetto pieno di olive tra i denti, sottolineando che non avrebbe mai immaginato quale sofferenza gli sarebbe costata continuare a reggere quel peso con i denti, tra scosse e oscillazioni continue.

Mai che si girasse per vedere se ero in difficoltà.

Fui così che imparai ad arrangiarmi da solo e ad essere intrepido, rifuggendo dall'accusare stanchezza.

Con lui non c'erano cazzi (scusatemi se adopero oggi una frase che non era nel mio linguaggio di allora, ma che esprime pienamente il concetto).

Ci si fermava soltanto quando si era arrivati alla meta.

E non ci si doveva lamentare della stanchezza.

Mio padre non gradiva questo tipo di manifestazioni: puerili, a suo avviso.

E lui aveva fatto la guerra ed era stato in prigionia.

Mi insegno anche una serie di cose fondamentali, tra le quali: mai frenare con il freno di davanti.

Era un maestro che sbagliava, però, e che non si piccava quasi mai di essere "perfetto". Una volta, proprio lui che mi aveva sempre raccomandato di non usare da solo (e bruscamente)il freno di davanti da solo, frenò bruscamente proprio con quello, facendo ribaltare la bici e finendo lungo disteso per terra (fu per evitare un bus). Rialzandosi, con i polsi doloranti per la botta, mi disse: "Cosa ti avevo detto? Mai frenare con il freno anteriore! Hai visto cosa succede"?.

Insomma, era capace di trasformare il suo stesso errore in insegnamento. Il che non è cosa da poco.

Malgrado le lunghe scorribande con mio padre, per molto tempo, per me ci fu il divieto esplicito di adoperare la bici da solo: mi era consentito soltanto di andare sul marciapiedi. Si intendeva: sul marciapiedi davanti casa.

Cosa che io, addestrato alle lunghe passeggiate ad ampio raggio con mio padre, vivevo come un'ingiustizia. Riottoso nei confronti della limitazione impostami, trovai un brillante escamotage: quello di fare il giro dell'isolato.

Soltanto che l'isolato della via dove abitavamo allora era davvero enorme.

Poi, pochi mesi dopo, trovai un altro sistema.

Dicevo a mia madre che andavo all'edicola a comprare gli ultimi giornalini usciti di quelli che collezionavo e, invece, mi avventuravo in giri lunghissimi ed avventurosi.

Una volta d'estate, arrivai perfino a San Martino delle Scale, rifacendo strade già percorse con mio padre che intanto mi aveva abbandonato, preferendo per le sue pedalate la compagnia d'un mio cugino più grande con il quale andava spesso in lunghi giri fuori città durante la settimana, di mattina, proprio quando io ero a scuola (tra le sue mete l'aeroporto di Punta Raisi, per fare un esempio).

Poi quella bici venne ceduta a qualche cuginetto più piccolo: mio padre acquistò per sé una Bianchi cromata e con il telaio in blu elettrico e mi cedette la sua Legnano.

Con la vecchia Legnano, per me nuova amica, intrapresi altre belle avventure, finalmente senza più il vincolo della vicinanza a casa.

Ma spesso la vecchia Legnano la tradivo per la Bianchi nuova fiammante di mio padre che presi a usare per andare a scuola, finchè un bel giorno me la rubarono.

E mio padre? Tuoni, fulmini e saette.

Ma poi se ne comprò una nuova.

Eppure quella Bianchi rimase insostituibile...

Era davvero bellissima.

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