Questo scritto è del 2003. Quale fu la molla che mi spinse a scrivere questi ricordi? Non so, francamente. Poco tempo prima era morto uno dei miei cani, questo lo ricordo per certo. E, nello stesso periodo, seguivo un Master per formatori degi operatori socio-sanitari. Questo master prevedeva, anche, tra le sue articolazioni tematiche, anche un modulo sulle narrazioni (anche autobiografiche) e sull'uso di esse nei percorsi formativi. La docente, responsabile di questo modulo, era davvero molto brava e coinvolgente, sicchè, quando ritornai a casa sentii l'impulso irrefrenabile di mettermi alla prova, abbandonandomi al flusso narrativo, senza troppe razionalizzazioni.
Una mattina di inizio maggio mio padre è partito.
Andava in aereo a Roma e sarebbe tornato a casa la sera tardi.
Papà bussa alla porta del bagno per dirmi che sta andando via.
Ciao! Ciao! ho fatto io da dietro la porta.
E lui se ne è andato.
Non poteva più aspettare.
Era già in ritardo, con l’autista già pronto, in attesa, sotto casa.
Per mio padre viaggiare in aereo, anche per viaggi lampo, era un fatto di routine, come prendere l'autobus per andare al lavoro e farne ritorno.
Un commiato casuale... ma chi poteva sapere.
A sera inoltrata, dopo una giornata normale, squilla il telefono.
Mio padre non era ancora rientrato... ma nessuna preoccupazione, a volte – si sa – gli aerei in maniera imprevista portano ritardo.
Io, chiuso in una stanza di casa, facevo l'amore, ignaro, con la mia "fidanzata" inglese, la mia "prima" fidanzata, appena giunta dall’Inghilterra...
Ero felice e gasatissimo di questa visita per la quale, dopo la nostra conoscenza in Inghilterra, avevo aspettato quasi un anno, tenendo nel frattempo con lei un appassionante contatto epistolare...
Mio padre era stato sicuramente contento di questa visita, che rappresentava un punto di svolta rispetto alle mie insicurezze adolescenziali: il segno che io mi fossi finalmente “svezzato” da una sorta di torpidità e di incertezza nell’avviare storie con le donne.
Squilla il telefono ripetutamente.
Mia madre va a rispondere.
Chi è, le sento chiedere.
Silenzio.
Chi parla?
Una lunga pausa di silenzio.
Poi, la voce di mia madre si leva più acuta.
Lei mi deve dire perché vuole sapere proprio ora se mio marito si trova sull'aereo in arrivo da Roma.
Me lo dica, me lo dica… La voce, sempre più alta, è prossima a rompersi in un lamento.
Pausa.
Di nuovo la stessa iterazione.
Grida scomposte.
E poi, silenzio.
Forse la voce implacabile all'altro capo del filo sta finalmente dicendo qualcosa.
Fine della telefonata.
Esco dalla stanza, ricomponendomi alla meglio, in ansia.
Cosa sarà successo?, mi chiedo.
Lo chiedo a mia madre.
Chi era?
Una giornalista del Giornale di Sicilia.
Che voleva?
Voleva sapere se papà era sull'aereo che veniva da Roma.
Perché lo voleva sapere?
Prima non me lo voleva dire
Poi alla fine te lo ha detto?
Sì.
L'aereo è caduto, è precipitato.
No. Che cosa mi dici!?
Sì, così.
Dopo questo sì, così netto ed irrevocabile, non ci sono più parole che si possano dire.
Cosa facciamo, adesso?
Non sappiamo cosa fare... Non siamo come quelli che vanno e vengono dall'aeroporto ad accompagnare e a prendere i propri familiari. Non sappiamo che fare...
Telefoniamo.
Sì, ma a chi?
Proviamo a chiamare in aeroporto.
Sì, proviamo.
Non si riesce a comunicare, le linee telefoniche per l'aeroporto sono intasate.
Andiamo, allora.
Sì, andiamo.
Dico poche parole a Jane, che è lì ammutolita, comprende e non comprende. Si trova improvvisamente sbalzata dentro una tragedia.
Ci vestiamo, siamo subito pronti.
Ci imbarchiamo sulla piccola cinquecento di mamma e partiamo angosciati, io alla guida.
L'autostrada per l'aeroporto è buia e silenziosa... poche macchine, strada deserta e poi, all’improvviso, il transito di un grumo di ambulanze con la sirena spiegata.
All'altezza di Carini, nel buio pesto della notte, vedo fasci di luce di cellule fotoelettriche che spazzano il fianco di Montagna Longa.
Sono preso dallo scoramento.
Per la prima volta dallo squillo del telefono il nodo che sento nel petto e in gola si scioglie in lacrime e pianto.
Mamma, cosa andiamo a fare là.
E' inutile torniamo a casa.
Andiamo ad aspettare a casa.
E' stato così che arrivati all'aeroporto senza nemmeno fermarci abbiamo imboccato la strada del ritorno.
Questo è quello che io ricordo.
Ma in verità – qui mi sovviene il racconto di mia madre, trentuno anni e dieci giorni dopo – siamo arrivati sin dentro all’aeroporto e, scesi dall’auto, siamo entrati nella sala arrivi.
Uno spazio desolatamente vuoto si è aperto davanti a noi.
Se ne erano andati tutti.
Un funzionario ci è venuto incontro…
Volevamo sapere…
Ma ci interrompe prima che noi si possa dire altro.
È inutile che stiate qua; andate a casa!
Perché, perché, fa mia madre.
Intanto si avvicina un giovane giornalista che noi conosciamo.
Anche lui ripete le stesse cose, con gentilezza.
Ha un giornale arrotolato che sporge dalla tasca.
Mia madre lo afferra e lo dispiega.
Legge la notizia “Si schianta su Montagna Longa l’aereo proveniente da Roma, morti i passeggeri e gli uomini dell’equipaggio". Non ricordo più il numero esatto.
Mia madre scorrere con lo sguardo l’elenco delle vittime. E lì c’è scritto a chiare lettere anche il nome di mio padre: Francesco Crispi.
Un cinico servizio a parte sulle personalità di spicco della cittadinanza a bordo dell’aereo.
Comprendiamo il motivo della telefonata di prima.
Era stata la cronista, autrice dell’articolo, a chiamare perché voleva avere la certezza del nome prima di includerlo nell’elenco, voleva essere sicura che si trattasse di quel Francesco Crispi, noto a Palermo negli ambienti giornalistici e della cultura, e non di altri.
Al ritorno, passiamo dalla strada dove c’è l’abitazione dei miei zii.
Saliamo per un po’. Andiamo a trovarli e a parlare con loro.
No. No. Cosa possiamo fare, cosa dire.
Torniamo a casa.
A casa tutti uniti, ad aspettare notizie.
Siamo tutti in piedi, in una situazione innaturale, un tempo sospeso, non c’è niente che si possa fare, solo attendere.
Storditi.
Attoniti.
Intanto si raccolgono gli altri parenti, i fratelli di mio padre, Aldo, il fratello di mamma, Zio Giovanni la moglie e figli, forse sono andati in aeroporto e anche loro aspettano notizie perché a bordo dell'aereo c'era anche la figlia Elisabetta.
Un dolore terribile.
Penso con amarezza che la mattina, mio padre non l'ho nemmeno salutato in modo appropriato.
So già che non lo vedrò più, nemmeno da morto.
È morto, una parola che non si può nemmeno pronunciare.
Proprio adesso che non c'è più sento in maniera atroce la sua mancanza, proprio adesso che avevo cominciato a differenziarmi e a crescere con una mia identità, rispetto alla sua personalità ricca e articolata, e alla sua cultura. Penso a tutte quelle cose che mi avrebbe potuto dare e che io, per orgoglio e per desiderio - impossibile – di crescita autonoma avevo cercato di rifiutare ( il rifiuto viscerale della solita frase detta da molti “E’ il figlio di Ciccio Crispi” frase da cui ogni volta ero inorgoglito ma che nello stesso tempo mi faceva sentire mortificato e annullato – mi dicevo: allora, per me, per le mie qualità io non valgo niente!), quelle cose che malgrado tutto, malgrado i miei contorcimenti, mi sono entrate dentro e che anche adesso mi porto dentro.
Non vedrò più mia padre. È una realtà dura e ineliminabile. Mi sento anche profondamente colpevole, come se con il mio bisogno di ribellione, fossi stato io a farlo morire, a mandarlo via per sempre.
Dopo due giorni di attesa è stata portata a casa una bara già sigillata.
Un lucido sarcofago di legno che fa male agli occhi solo a guardarlo.
Gli sgabelli di legno stile impero, del salotto, su cui lo appoggiamo gemono e si sconocchiano sotto il suo peso.
Corone di fiori invadono la stanza, comincia una processione interminabile di volti compunti di cui non ricordo più nulla.
Mio padre è la dentro... ma ci sarà poi davvero? Che cosa ci sarà poi là dentro?
Me lo sono chiesto allora e me lo sono chiesto più volte, in tutti gi anni successivi.
Nei giorni successivi servizi giornalistici a non finire, fotografie impietose.
Qualcuno, mi mostra una foto, pubblicata sul quotidiano della sera.
Un recinto di filo spinato e a terra indistinta una macchia scura, forse un corpo raggomitolato.
Questo stesso qualcuno mi dice: alcuni dicono che questo fosse il corpo di tuo padre, nel punto in cui lo hanno ritrovato.
Non sono andato come mio zio Giovanni all'Istituto di Medicina Legale a cercare di riconoscere i resti mortali di papà, se c'era qualcosa da riconoscere.
Mi hanno detto di non andare.
Io, codardo, ho accettato l'imposizione.
Negli anni, me sono pentito.
Me ne pento sempre.
Avrei dovuto bere da questa coppa sino in fondo, per capire la durezza della vita.
E, invece, ho preferito non farlo.
Anche se nessuno lo hai mai riconosciuto ufficialmente, prima dell’arrivo dei primi soccorsi, sciacalli hanno saccheggiato i bagagli sparsi sulla montagne, cercando oggetti di valore tra le cose che non si erano polverizzate nell'esplosione.
Delle cose di papà non si è trovato niente, ma viaggiava leggero, la borsa dei documenti, le cose per un giorno di viaggio.
A distanza di giorni, ci hanno chiamato alla caserma dei carabinieri. Saloni vuoti, con i soffitti altissimi, luoghi intrisi di malinconia, in un ufficio arredato con mobili dozzinali, ci hanno consegnato un portafoglio. Il portafoglio di papà, e all’interno il suo tesserino da giornalista, bigliettini di appunti, niente soldi, la patente di guida ce l’aveva portata lo zio Giovanni dall’Istituto di Medicina Legale, dove erano stati disposti i corpi. Forse stava appuntata su quello che rimaneva del suo corpo. Ci hanno anche dato alcune chiavi, tra cui quella di una valigetta rigida da viaggio, una chiave profondamente incisa su una delle sue superfici.
Ho pensato che fosse stato l'urto a produrre questo graffio.
In questi momenti, si pensano sempre delle cose stupide ed irrilevanti.
Questa chiave, per anni, l'ho tenuta nel mio portachiavi personali e spesso con il polpastrello ne percorrevo il graffio e cercavo di immaginare la durezza dell’urto che era stato capace di provocarlo.
Dopo due mesi, accompagnato da mia cugina Patrizia e dallo zio Aldo, in un caldissimo pomeriggio di Luglio, affrontiamo la salita, su per le balze di Montagna Longa, dal lato di Cinisi.
Una strada percorribile dalle auto, solo fino ad un certo punto, poi dobbiamo proseguire a piedi su per l’erto fianco del monte.
Mio zio è costretto a rinunciare perché si sente male.
Noi continuiamo e infine arriviamo sulla cima piatta, lunga e stretta, grosse rocce calcaree affioranti dal terreno, disi in piena vegetazione, non un albero su questa cresta spesso battuta da venti impetuosi, il terreno, nei punti in cui è libero dalla vegetazione spontanea, è disseminato di minuti frammenti di metallo plastica, stoffa, tutti i detriti più voluminosi sono stati asportati per le perizie (in verità, furono eliminati frettolosamente e mai conservati per uno studio accurato della dinamica della tragedia: niente di simile a quello che venne fatto successivamente per l'aereo precipitato sui cieli di Ustica; ma questa è un'altra storia).
Rimango a lungo, chinandomi a raccogliere, di tanto in tanto, i frammenti ed esaminandoli, come se, dall’esame di un singolo frammento, io possa trarre elementi che mi aiutino a comprendere l’enormità della tragedia che ha coinvolto, in un solo istante, così tante persone. Qau e là scopro qualche frammento di valigia lacerato, un po’ più grande.
Il vento soffia di continuo, facendo oscillare la distesa d’erba.
Si respira una profonda solitudine, ma è una solitudine che ispira sentimenti di pace e di quiete.
Non ci sono segni appariscenti di ciò che è avvenuto, segni di distruzione e di lotta, tracce di fuoco.
Quando ero più piccolo mio padre mi aveva detto, commentando l’improvvisa morte di un suo collega giornalista per infarto (che, al mattino, era stato trovato morto alla sua scrivania dai suoi familiari), È questo il modo in cui vorrei morire. Di colpo. Una rapida transizione dalla vita alla morte.
Mi chiedo, mentre sto in piedi tra i ciuffi di disi che oscillano nel vento, se questo suo desiderio sia stato esaudito oppure se ha fatto in tempo ad accorgersi che era giunto il momento e se ha avuto paura.
Il vento soffia eterno e non da risposte.
Quando sono tornato a casa, o l’avevo già fatto prima, ora non ricordo, sono andato a leggere un libro caro a mio padre, Il ponte di San Luis Rey, di Thornton Wilder, cercando delle risposte sul perchè le vite di alcuni uomini vengano ad essere accomunate dallo stesso destino.
Ancora oggi, non so se le ho trovate queste risposte, né se mai le troverò.
Perchè si vive, perchè si muore.
Perchè alcuni vivono, perchè altri muoiono.
E' tutto.